Copertina di Big Numbers N. 1 illustrata da Bill Sienkiewicz. |
Nel seguito, estratto da Le Straordinarie Opere di Alan Moore (pag. 173-174; traduzione di Leonardo Rizzi), edizione italiana edita nel 2011 da Black Velvet Editrice de The Extraordinary Works of Alan Moore - Indispensable Edition (Twomorrow Publishing, 2008), volume ideato da George Khoury.
Inutile aggiungere che Big numbers è il grande capolavoro incompiuto di Moore! QUI trovate qualche altra informazione in merito, se servisse.
Alan Moore: [...] E così, visto che per pubblicare AARGH! avevamo messo su una casa editrice, mi è sembrato naturale che la mossa successiva fosse sfruttare questa possibilità. Realizzare un fumetto commerciale, un grande fumetto successivo a Watchmen. Il progetto doveva diventare la naturale prosecuzione di Watchmen, nella nuova direzione che avevo preso, ed è così che abbiamo avuto l’idea di Big numbers.
Volevo portare i fumetti a un livello superiore rispetto a Watchmen, così come Watchmen li aveva portati a un livello superiore rispetto a quanto si poteva immaginare prima.
Volevo portare i fumetti a un livello superiore rispetto a Watchmen, così come Watchmen li aveva portati a un livello superiore rispetto a quanto si poteva immaginare prima.
Per Big numbers abbiamo provato a ideare un fumetto da zero, senza alcun preconcetto di sorta.
Volevamo che i singoli albi avessero un formato e una foliazione diversa, e che in ogni pagina ci fosse una quantità di vignette sempre diversa; volevamo impiegare tecniche di narrazione sperimentali e in continua evoluzione, che non fossero mai state usate prima e che fossero completamente diverse da quelle in Watchmen; volevo che trattasse il tema più comune possibile: la città in cui vivo, un centro commerciale. Volevo davvero scrivere all’apice delle mie possibilità. Volevo dimostrare ai lettori quello che potevo fare nel momento in cui non mi ritrovavo intralciato dalle tradizioni e dal peso del genere supereroistico. Con queste parole non voglio dire
niente contro il genere supereroistico, ma è materiale molto pesante da portarsi dietro. Non è il vertice più alto a cui aspiro. Anche quando i supereroi sono scritti bene, alla fin fine sono sempre un po’ troppo semplicistici dal punto di vista morale.
Io invece volevo un mondo che non avesse una visione così semplicistica. Volevo esplorare un mondo tanto complesso da diventare caotico ed è questa l’idea centrale di Big numbers, ovvero il concetto della matematica frattale e della matematica del caos, idee che all’epoca erano ancora relativamente nuove. Volevo verificare se all’interno di questa nuova forma di matematica fosse possibile scoprire una nuova visione del mondo. Se fosse possibile scoprire una visione più umana e più accurata del mondo in cui viviamo, considerando il fatto che a tutti sembra di vivere nel caos e la cosa sembrava particolarmente vera alla fine degli anni Ottanta, quando ho cominciato a lavorare a Big numbers. Il mondo stava diventando sempre più caotico. Naturalmente, all’epoca nessuno di noi immaginava che avrebbe continuato a profondare nel caos fino ad arrivare ai livelli di oggi. Ma i segni erano già molto evidenti. Allora ho pensato che forse i lettori avrebbero potuto trovare utile il nostro tentativo di spiegare loro che il caos che li circondava, nella loro comunità, nella loro vita, nel loro mondo, che tutto quel caos dipendeva unicamente dalla loro percezione.
Volevamo spiegare che, se uno riesce ad allontanarsi quanto basta dal tumultuoso ribollire degli eventi, che sembra tanto caotico quando ci si ritrova in mezzo a loro… se si riesce a frapporre un minimo di distanza intellettuale, si può allora comprendere che ciò che da vicino sembra caotico è in realtà una forma di ordine molto, molto complessa.
La teoria del caos ci offre una nuova modalità per comprendere il mondo e questa modalità forse è più utile, più ottimista e non trasmette tutto quel senso di catastrofe imminente: queste erano le riflessioni alla base di Big numbers. [...]
George Khoury: Ho letto da qualche parte che il primo [numero] ha venduto sulle 60.000 copie; il secondo invece sulle 40.000, ma sono numeri altissimi se li consideriamo alla luce del mercato odierno.
Erano numeri ottimi. “Grandi numeri”, no? [risate]
Per un albo senza supereroi, di forma quadrata, pure in bianco e nero e… non si trattava neanche di uno di quei casi in cui non è un fumetto di supereroi, però è un fumetto giallo, oppure un fumetto western o di fantascienza. Big numbers non apparteneva a nessun genere predefinito: parlava solo di shopping e matematica.
Non è che occupi un settore con molti titoli nelle librerie.
Volevamo che i singoli albi avessero un formato e una foliazione diversa, e che in ogni pagina ci fosse una quantità di vignette sempre diversa; volevamo impiegare tecniche di narrazione sperimentali e in continua evoluzione, che non fossero mai state usate prima e che fossero completamente diverse da quelle in Watchmen; volevo che trattasse il tema più comune possibile: la città in cui vivo, un centro commerciale. Volevo davvero scrivere all’apice delle mie possibilità. Volevo dimostrare ai lettori quello che potevo fare nel momento in cui non mi ritrovavo intralciato dalle tradizioni e dal peso del genere supereroistico. Con queste parole non voglio dire
niente contro il genere supereroistico, ma è materiale molto pesante da portarsi dietro. Non è il vertice più alto a cui aspiro. Anche quando i supereroi sono scritti bene, alla fin fine sono sempre un po’ troppo semplicistici dal punto di vista morale.
Io invece volevo un mondo che non avesse una visione così semplicistica. Volevo esplorare un mondo tanto complesso da diventare caotico ed è questa l’idea centrale di Big numbers, ovvero il concetto della matematica frattale e della matematica del caos, idee che all’epoca erano ancora relativamente nuove. Volevo verificare se all’interno di questa nuova forma di matematica fosse possibile scoprire una nuova visione del mondo. Se fosse possibile scoprire una visione più umana e più accurata del mondo in cui viviamo, considerando il fatto che a tutti sembra di vivere nel caos e la cosa sembrava particolarmente vera alla fine degli anni Ottanta, quando ho cominciato a lavorare a Big numbers. Il mondo stava diventando sempre più caotico. Naturalmente, all’epoca nessuno di noi immaginava che avrebbe continuato a profondare nel caos fino ad arrivare ai livelli di oggi. Ma i segni erano già molto evidenti. Allora ho pensato che forse i lettori avrebbero potuto trovare utile il nostro tentativo di spiegare loro che il caos che li circondava, nella loro comunità, nella loro vita, nel loro mondo, che tutto quel caos dipendeva unicamente dalla loro percezione.
Volevamo spiegare che, se uno riesce ad allontanarsi quanto basta dal tumultuoso ribollire degli eventi, che sembra tanto caotico quando ci si ritrova in mezzo a loro… se si riesce a frapporre un minimo di distanza intellettuale, si può allora comprendere che ciò che da vicino sembra caotico è in realtà una forma di ordine molto, molto complessa.
La teoria del caos ci offre una nuova modalità per comprendere il mondo e questa modalità forse è più utile, più ottimista e non trasmette tutto quel senso di catastrofe imminente: queste erano le riflessioni alla base di Big numbers. [...]
George Khoury: Ho letto da qualche parte che il primo [numero] ha venduto sulle 60.000 copie; il secondo invece sulle 40.000, ma sono numeri altissimi se li consideriamo alla luce del mercato odierno.
Erano numeri ottimi. “Grandi numeri”, no? [risate]
Per un albo senza supereroi, di forma quadrata, pure in bianco e nero e… non si trattava neanche di uno di quei casi in cui non è un fumetto di supereroi, però è un fumetto giallo, oppure un fumetto western o di fantascienza. Big numbers non apparteneva a nessun genere predefinito: parlava solo di shopping e matematica.
Non è che occupi un settore con molti titoli nelle librerie.
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