Jessica Abel. |
Si tratta di una auto-intervista che la Abel pubblicò sul suo sito e che venne proposta nel 2001 in appendice al volume di Artbabe edito, appunto, da Black Velvet. Apparve poi nel Luglio 2001 su Ultrazine su autorizzazione degli editori italiani, Omar Martini e Luca Bernardi.
Per leggibilità ho ridotto il numero delle note originarie inserendo, al loro posto, i relativi link.
(Ah, lo so che mi leggete in... quattro gatti! No problem! Pochi ma buoni. ;) )
LEGGEVI FUMETTI DA PICCOLA?
JESSICA ABEL: Sì, mi ricordo che già allora provavo un forte interesse per le immagini disegnate, con l’esclusione di quelle fotografiche. [Ehi, voi, giornalisti in erba… attenzione! Sta per arrivare un aneddoto simpatico!] Quando ero ancora una bambina, la famiglia della mia migliore amica, Kristin, aveva una piccola barca che teneva presso una darsena nel Michigan e ogni tanto andavo lassù con loro per il fine settimana. Il viaggio in auto durava quattro ore e per me, che avevo sette anni, era assolutamente interminabile. Per farci stare tranquille, la mamma di Kristin di solito ci comperava tre pacchi di fumetti a un distributore di benzina, poco dopo la partenza. Ai distributori i fumetti li vendevano così: tre pacchi di fumetti per bambini, come Richie Rich e Casper, sigillati in un involucro di plastica. L'unico problema di questa piacevole intesa era che li leggevo tutti in un'ora circa, e poi trascorrevo il resto del viaggio con il desiderio di averne altri, chiedendo con voce lamentosa: "Siamo già arrivati?!" [Fine dell'aneddoto]
Possedevo anche la copia di una raccolta di fumetti di Wonder Woman degli anni ‘40 che mi aveva dato (credo) la mia matrigna: era una cosa femminista in stile anni ‘70, contenente molti saggi. Una specie d'approccio storico-revisionistico alla donna nel fumetto. C’era (anzi, c’è) un'introduzione di Gloria Steinem, ma allora non m’interessava. Mi bastava divorare le storie. La cosa divertente è che, durante tutta la mia fanciullezza, andavo in continuazione a riprenderlo per rileggerlo. Ero certa di conservarlo in un punto ben preciso della mia libreria e un bel giorno, mentre cercavo di ricordare dove l’avessi messo l’ultima volta, ebbi l’impressione che potesse essere in due posti diversi. Mossa da ispirazione, li controllai entrambi e, caspita, ne avevo due copie! Non ho proprio idea di come possa essere successo.
A otto anni ho acquisito dei fratellastri (che ho poi perso). Tra di loro ce n’era uno che possedeva un’enorme baule pieno di fumetti, tra i quali un sacco di numeri di Devil. In un certo senso si comportava come il tipico fratello che non ti fa leggere i suoi fumetti, ma ogni tanto ero fortunata.
Ero anche appassionata di cartoni animati. Dovete tenere presente che, quando ero piccola, non li trasmettevano 24 ore su 24 come fanno adesso. Al sabato mattina ne trasmettevano una quantità limitata e vivevo nell'attesa di quel giorno. La mia depressione, tra la fine dei cartoni e l'inizio dei programmi per bambini con attori in carne ed ossa (verso le 11 di mattina), era evidente. Lasciamo poi stare le domeniche. Non trasmettevano cartoni animati! Che desolazione! Durante la mia adolescenza, in TV ne trasmettevano già molti più. Tornavo a casa da scuola e mi mettevo davanti alla tele a guardare per ore Thundercats e spazzatura simile, solo perché erano cartoni animati. Non so proprio per quale ragione.
Dopo qualche anno in cui i fumetti non mi avevano coinvolto molto, a circa 15 anni iniziai di nuovo ad interessarmene. Lavoravo in una ferramenta e andavo a pranzo al grande magazzino White Hench dove, in mezzo alle riviste, avevano una vasta gamma di fumetti. Cominciai a prendere un sacco di roba, precisamente gli albi dei mutanti della Marvel ed Elfquest. Sì, lo so: è imbarazzante, però pensavo che essere una ragazza che leggeva fumetti fosse una cosa molto ribelle e "contro il sistema". L'interesse crebbe e un regalo da parte di mio padre, alcuni Ms. Tree (un fumetto poliziesco in bianco e nero pubblicato dalla First Comics) scritti da un suo cliente, mi diede la spinta per andare a caccia di altro materiale in bianco e nero e di qualsiasi altra cosa che sembrasse interessante. In quel periodo mi sentivo completamente spaesata nelle librerie di fumetti e non avevo idea di che cosa potesse piacermi. Inoltre, non conoscevo nessun altro che li leggesse, così non c’era un’anima con cui poterne parlare. Nel 1987, poco dopo l’inizio dell’università, mi sono imbattuta nel numero 21 di Love & Rockets in un negozio che vendeva dischi e fumetti: questo fumetto mi impressionò enormemente e costituì per me un punto di svolta.
COME HAI INIZIATO?
Pur essendo sempre stata interessata a disegnare, in particolare i volti delle persone (dopo l'inevitabile fase dei cavalli, naturalmente), e a scrivere storie (da piccola ho fatto molti libri illustrati, come l’ormai classico Il mostro che si pappò mr. M... il mio amatissimo insegnante di ginnastica), il mio primo disegno a fumetti in assoluto fu un’illustrazione di una sola vignetta per il giornale della mia scuola superiore, l'Evastonian, di cui sono stata la redattrice della sezione di cronaca durante l'ultimo anno di corso: rappresentava me e i miei migliori amici come membri dei Lilliptians, un finto gruppo musicale, che però aveva un aspetto davvero forte. Facevamo qualcosa che aveva a che fare con un buco nel terreno. Non ricordo che cosa.
Il mio primo vero fumetto fu una storia raccontata in maniera sequenziale, che realizzai durante il mio primo anno d'università per sfuggire alla redazione della tesina del corso di letteratura (questo modo di evitare il lavoro sarebbe poi diventato un "leit-motiv" negli anni dell’università). Feci un versione fantascientifica di Medea e presi il massimo dei voti, principalmente perché credo che l'insegnante non sapesse come inquadrarlo (durante il terzo anno d'università feci una seconda versione di Medea, questa volta come una commedia mafiosa, per il corso "Femminismo e i Classici". Sembra incredibile, ma mi ero dimenticata che solo due anni prima mi ero già occupata di Medea. In ogni caso, ho preso il massimo dei voti anche con questo lavoro). Dopo il mio anno di matricola mi trasferii dal Carlton College all’Università di Chicago e, durante il trimestre autunnale del mio secondo anno, notai che girava nel campus un volantino di un gruppo, interessato ai lavori a fumetti degli studenti e intenzionato a pubblicarli in un'antologia. Mi presentai all'incontro organizzativo e lì incontrai per la prima volta, tra gli altri, Ivan Brunetti. Breakdown (l'antologia in questione) uscì quell'anno, finanziata dall'associazione studentesca. Il mio contributo fu la prima parte di "Junkie": questa storia era stata concepita l’anno precedente quando ero andata a trovare a Berkeley la mia migliore amica delle superiori. Durante quella permanenza, mi mostrò un racconto erotico, scritto di recente, che utilizzava il flusso di coscienza e ne rimasi veramente impressionata. Riguardandolo adesso, è un pò imbarazzante per entrambe, ma allora era molto potente. Comunque, ispirata da un numero infinito di cotte che avevo avuto e sentendo che non sarei mai stata in grado di scrivere in modo così chiaramente efficace, le chiesi se potevo usare la sua storia e scrivere la mia per creare l’ambientazione per il suo racconto. La sua parte divenne una specie di sogno ad occhi aperti (o riflessione) del personaggio principale della mia storia. Tuttavia, la prima parte di "Junkie" è tutta farina del mio sacco e costituisce quanto è apparso nel primo numero di Breakdown.
L'anno successivo, divenni editor di Breakdown e, quasi senza aiuto, feci uscire tre numeri, contenenti alcune mie storie: la seconda parte di "Junkie", alcuni racconti umoristici e dell'altra robaccia auto-commiserativa. Durante l’ultimo anno di università, ero esaurita e non lavorai più per Breakdown, che divenne una fanzine terribilmente incasinata e alla fine sparì. A volte le cose te le devi proprio fare da sola... in quel periodo, ricevetti il permesso di fare un fumetto per il progetto della mia tesi finale e così mi misi a lavorare sodo. Alla fine, realizzai una sceneggiatura di cinque capitoli dal titolo Salt e un capitolo di immagini che mi permise di diplomarmi a pieni voti… non l'ho mai finito e ora sono contenta di non averlo fatto, perché così non uscirà mai da nessuna parte.
Dopo la mia laurea, Ivan Brunetti iniziò a pubblicare un'antologia dal titolo Biff Bang Pow, che presentava molti degli artisti di Breakdown. Ridisegnai alcuni dei miei lavori per Breakdown e, contemporaneamente, ripresi anche "Junkie" perché lo volevo pubblicare da qualche parte. A quel tempo ero certa che non avrei mai fatto niente di altrettanto buono. All'inizio del ‘92, partecipai al concorso pubblicato da Odio! "Vinci un appuntamento con Stinky": una specie di scherzo dove il vincitore sarebbe stato disegnato in una striscia di Odio. Vinsi io e Pete Bagge sarebbe dovuto venire in estate alla Convention di Chicago, così ci mettemmo d'accordo per incontrarci là in modo che mi potesse disegnare. Ero così eccitata che misi insieme il primo numero di Artbabe in tutta fretta in modo da avere qualcosa di presentabile da dare a Pete e Gary Groth, con lo scopo di essere pubblicata dalla Fantagraphics. Beh, non fece un grande effetto su Gary, ma piacque a Pete, e cortesemente la pubblicizzò sul numero 10 di Odio!, l’albo in cui una mia giovane versione incazzata appare in una striscia in quarta di copertina. Fu questo l’inizio della mia carriera nell’autoproduzione, sebbene non l’avessi immaginata così. Questo primo numero ebbe una risposta moderatamente buona, sufficiente a farlo ristampare diverse volte e a convincermi a continuare Artbabe. Così, un anno dopo, pubblicai un altro numero.
QUALI SONO LE TUE PRINCIPALI FONTI D'ISPIRAZIONE NEL CAMPO DEL FUMETTO?
Beh, la prima influenza è stata Wonder Woman, che ho già citato, con il periodo iniziale fino alla prima metà degli anni ‘40 (quello di Charles Moulton e H.G. Peters), assieme a un sacco di libri illustrati per bambini. In seguito, quando iniziai realmente a disegnare fumetti, continuavo a essere presa dalla fantascienza e dai vari albi mutanti della Marvel; più tardi, Il cavaliere oscuro, V for Vendetta e Watchmen ebbero un ruolo importante nello spingermi ad ambientare il mio primo fumetto nello spazio, ma anche a scrivere una sceneggiatura veramente ridondante.
Tuttavia, l’influenza più importante nei miei fumetti fu, senza alcun dubbio, Love & Rockets di Jamie e Gilbert Hernandez (con, di tanto in tanto, il fratello Mario), e in particolare il lavoro di Jamie, che formò il mio concetto di ciò che sono o possono essere i fumetti e mi fecero decidere di diventare un’autrice. Quando ero ancora una tenera matricolina del college, presi il numero 21 e fui "travolta". Cosa ancora più importante, spazzò via tutti i limiti che sapevo su come si facevano i fumetti. Mi innamorai all'istante di Speedy (per i profani: il numero 21 segna l’inizio della storia di Jamie "La morte di Speedy"), L.A. VATOS iniziò ad apparire nei miei quaderni di schizzi e tutto… semplicemente cambiò. Beh, in realtà, non è del tutto vero: rimasi ancora un po’ pretenziosa.
Nello stesso periodo iniziai a leggere Deadline (una rivista antologica inglese) [1] e fui particolarmente influenzata da Philip Bond e dal disegno di Jamie Hewlett (ma non dalla sua scrittura, grazie a Dio). Presi un libro-antologia dal titolo Heck, che era stupefacente. Mi attirava particolarmente la storia di Lloyd Dangle, le prime cose di Julie Doucet e Mark Marek [2]. Questo segnò, penso, l’inizio del mio interesse per fumetti più artistici. Poi arrivò Jimbo, la versione Pantheon dell'indimenticabile, brillante e incredibile opera di Gary Panter [3].
Successivamente, per me fu molto importante Sinner, la traduzione di Alack Sinner di Josè Munoz e Carlos Sampayo, pubblicata da Fantagraphics, e, molto più tardi, Rubber Blanket di David Mazzucchelli. Più recentemente, ho iniziato a riscoprire le strisce classiche, in particolare Terry e i Pirati di Milton Caniff, e, infine, il favoloso lavoro di quel francese, Blutch [4], in particolare la sua serie Mitchum (fortunatamente quasi tutta senza parole per chi, come me, non parla il francese), e Peplum, una straziante rivisitazione del Satyricon.
FAI FUMETTI FEMMINISTI?
Risposta breve: sì. Risposta lunga: questa è veramente una domanda stupida. Leggeteli e capirete da soli. Insomma, è naturale che lo siano! Però chi mi pone questa domanda lo fa presupponendo una cosa più specifica, vale a dire: i miei fumetti hanno un obiettivo femminista? La risposta è no. Sono un’ardente e dichiarata femminista, non ho paura dell’etichetta, ma faccio in modo che la mia visione del mondo non guidi i miei fumetti, ma che, semplicemente, li permei. I miei racconti sono femministi in modo implicito (perché io lo sono), ma non in modo esplicito (perché non è quello di cui m’interessa scrivere). Perché non fanno mai queste domande agli uomini?!
A proposito, gli attenti osservatori dell'attuale zeitgeist culturale potrebbero aver notato nel 1998 un breve articolo che la rivista The Face [5] ha fatto su di me. Teoricamente, avrebbe dovuto essere davvero bello essere promossi da The Face, ma immaginate il mio orrore quando riuscii a mettere le mani sulla copia e scoprii che l’articolo iniziava con l’affermazione assolutamente falsa ed imbarazzante che IO insisterei nell'affermare che NON sono un'autrice femminista, ma un'autrice "femmina". Naturalmente è vero che lo sono, ma non ho mai ripudiato né ripudierei mai i miei forti principi femministi. Pare che il giornalista di The Face si sia in qualche modo impadronito di un articolo su di me, pubblicato dal Chicago Magazine, che iniziava con lo stessa calunnia e che lo abbia semplicemente copiato. Peccato che non abbiano avuto l’idea di rubare anche dal numero successivo, che pubblicava la mia lettera di protesta molto arrabbiata. La mia seconda lettera di protesta a The Face fu pubblicata uno o due numeri dopo, con delle scuse concise, ma ormai il danno era fatto.
Domanda conseguente: il mondo del fumetto è sessista? Posso parlare solo per quanto riguarda il mondo del fumetto "alternativo", e la mia esperienza è che implicitamente forse lo è, ma non certo in modo esplicito. Nessuno mi ha mai detto di non essere interessato a pubblicare/distribuire/vendere/comperare le mie opere perché sono una donna, però ci sono alcune autrici di fumetti, che conosco o di cui mi hanno raccontato, che non vedono il proprio lavoro rappresentato come meriterebbe… ma non ho nessuna idea a riguardo. Forse non siamo abbastanza, però poi ci vengono poste domande stupide come questa. Per quanto riguarda il mondo del fumetto "mainstream", a quanto ne so è sessista, ma non ho un contatto diretto.
HAI DEI CONSIGLI PER CHI STA INIZIANDO A FARE FUMETTI?
Sì. Fondamentalmente, lavorare molto e disegnare tutti i giorni: in questo non ci sono scorciatoie. Inoltre, fate immediatamente dei "mini-comics", anche se si tratta di realizzarne solo dieci per i vostri migliori amici. Questo è il modo migliore per iniziare a capire come si fanno i fumetti. Per dei consigli più specifici, vi rimando alla sezione DIY in "Comics and Art" (che è ancora in costruzione), contenuta nel mio sito.
PERCHÉ TI SEI TRASFERITA IN MESSICO?
Va bene, partiamo dall'inizio: ho vissuto a Chicago o nei suoi dintorni per quasi tutta la vita (tranne il primo anno di università) ed era ormai da un po’ che stavo riflettendo se andare a vivere all'estero. Certo, ci pensano in molti ma iniziare a muovere le chiappe e trasferirsi è un'altra cosa. Ad ogni modo, alcuni anni fa lavoravo negli uffici amministrativi della "School of Art Institute di Chicago" e cominciai a pensare (sempre di più) di volermi laureare. Io non ho mai frequentato la scuola d'arte e invidiavo molto chi poteva farlo, soprattutto quando ero in mezzo a quei cretini, per lo più benestanti, che sprecavano il loro tempo; tempo prezioso che potrebbe essere speso per giocare con tutti quei giocattoli artistici! Così pensai di laurearmi a Londra e feci domanda per due diverse borse di studio che mi permettessero di andare lì. Nessuna delle due fu accettata. Nel frattempo, incominciai a frequentare Matt Madden, autore di fumetti e grande amore della mia vita, che voleva trasferirsi in Messico per un po’. C’era già stato diverse volte e gli era piaciuto molto, stava imparando lo spagnolo e, cercando di avere la sicurezza di potersi mantenersi lì, frequentava una scuola per ottenere un diploma con cui poter insegnare inglese a un buon livello. Eravamo già dell’idea entrambi di trasferirci, poi il mio beneamato capo si dimise e venne sostituito da un nuovo capo che non era proprio così amato: questo fu l’evento che mi diede lo stimolo finale. In verità, eravamo già a buon punto: questo fatto rese solo la scelta più facile. Così ci trasferimmo nel marzo del 1998, circa sei mesi dopo le dimissioni del vecchio capo.
Da artisti e da persone curiose, sembrava la cosa giusta e fortunatamente abbiamo avuto ragione. Il Messico è il massimo, ci siamo fatti un sacco di amici meravigliosi e abitiamo in un appartamento bellissimo. Il costo della vita qui è veramente basso (specialmente quando, come me, sei pagata in dollari e anche se il mio reddito, per gli standard statunitensi, non può essere considerato "irrisorio"). Se volete sapere qualcosa di più sulla mia vita in Messico, iscrivetevi all’Artbabe Army e tenete d'occhio i miei diari messicani nel quartiere generale dell'Artbabe Army [6].
In futuro, vogliamo trasferirci in Giappone e spero che sia sufficiente estrapolare da questa mia spiegazione i motivi di questa scelta [7].
SEI TU ARTBABE?
Ohhhhhhh, Cristo! No, Artbabe è un personaggio d'immaginazione che adorna le copertine della mia serie e che, di tanto in tanto, appare nelle storie stampate altrove ma, fino ad ora, mai nella serie omonima. È una pittrice e l’ho basata su una persona che ho conosciuto di nome Andrea, che faceva (fa?) la stilista. Detto ciò, anche i miei amici più intimi insistono nel dire che Artbabe sono io, anche se non le somiglio per niente. Chissà perché ne sono davvero convinti. Ma, dico io, un sacco di gente porta gli occhiali, per l'amor del cielo!
NOTE
[1] Deadline fu una delle riviste inglesi nate agli inizi degli anni ’80, che dava spazio a una serie di giovani artisti; in seguito, molti di loro avrebbero trovato una discreta continuità di lavoro all’interno della divisione Vertigo della DC Comics. Questa rivista divenne famosa anche perché in queste pagine venne pubblicato per la prima volta il fortunato personaggio "Tank Girl" di Alan Martin e Jamie Hewlett.
[2] Lloyd Dangle è l’autore di Troubletown, una serie dal segno un po’ grezzo e dalle tematiche profondamente arrabbiate e politiche, che tratta soprattutto di persone ai margini della società, viscidi plutocrati, cameriere di fast food e signori delle multinazionali. Attualmente, dopo essere stata pubblicata per tre numeri dalla Drawn & Quarterly, questa serie è approdata su internet, dove ha acquisito una forte notorietà. Julie Doucet è una disegnatrice canadese famosa soprattutto per la serie Dirty Plotte. Profondamente legata al fumetto onirico e a quello auto-biografico, Julie Doucet ha trovato anche ampi consensi nell’ambito dell’illustrazione, realizzando numerose mostre in Europa e in America. Mark Marek è un autore minore che ha avuto collaborazioni trasversali tra fumetto, illustrazione e musica.
[3] Eclettico disegnatore, illustratore, designer e commerciante d’arte, Gary Panter iniziò a lavorare fin dagli anni ’70, legandosi alla scena underground con il fumetto Jimbo, che ha per protagonista un ragazzo punk perso nell’ambientazione fantascientifica di una città chiamata DalTokyo. Il disegno ha uno stile che ricorda il cubismo e che permise all’autore di sperimentare sia a livello grafico che narrativo. Panter lavorò molto con Pee-Wee Herman, lo sfortunato attore del primo film di Tim Burton, con cui realizzò moltissime ambientazioni e il set della sua trasmissione televisiva e, successivamente, fu uno dei collaboratori della rivista Raw, fondata da Art Spiegelman.
[4] Uno dei più interessanti artisti del moderno panorama francese, Blutch si ispira ad autori americani, come Will Eisner e David Mazzucchelli, reinterpretandoli e filtrandoli con una sensibilità europea. Mitchum è una serie di volumetti autoconclusivi slegati l’uno dall’altro, in cui la narrazione canonica dei primi due numeri lascia presto il passo, con il terzo, a uno sviluppo più surreale, in cui l’elemento fondamentale diventa la concatenazione di immagini e di sensazioni. Peplum, nonostante sia stato serializzato originariamente su A Suivre, non ha nulla di classico e adatta Satyricon in modo estremamente moderno, con un segno e una dilatazione del racconto che la rendono una delle opere più interessanti e importanti realizzate in questi ultimi anni in Francia.
[5] Il magazine inglese di tendenza che, dagli anni ’80 in avanti, influenza le riviste di tutto il mondo, grazie alla grafica innovativa e alla costante attenzione all’evoluzione dei trend giovanili in tutti i campi, dalla moda al cinema alla televisione ai fumetti. The Face fu una delle riviste che, durante il cosiddetto Rinascimento del fumetto americano iniziato con opere come Watchmen e Batman: Il ritorno del cavaliere oscuro, diede ampio spazio ad articoli sul fumetto, fino ad arrivare a pubblicare a puntate Apocalisse Personale di Neil Gaiman e Dave McKean, realizzato appositamente per questa rivista.
[6] L’Artbabe Army è l’"esercito" di coloro che si sono iscritti al sito di Jessica Abel.
[7] È passato un po’ di tempo da questa intervista e ci sono stati dei cambiamenti che, all’epoca, non era previsti. Il viaggio in Giappone, per fare una nuova esperienza e verificare le possibilità di lavoro in quel paese, non si è mai concretizzato. Jessica e Matt però sono tornati nel 2000 negli Stati Uniti, si sono sposati e attualmente vivono a New York, dove Jessica continua la sua carriera di autrice di fumetti e illustratrice. Sta già pensando al terzo ciclo di Artbabe che, a differenza dei numeri precedenti, dovrebbe presentare una serie di storie collegate tra loro con dei personaggi fissi.
JESSICA ABEL: Sì, mi ricordo che già allora provavo un forte interesse per le immagini disegnate, con l’esclusione di quelle fotografiche. [Ehi, voi, giornalisti in erba… attenzione! Sta per arrivare un aneddoto simpatico!] Quando ero ancora una bambina, la famiglia della mia migliore amica, Kristin, aveva una piccola barca che teneva presso una darsena nel Michigan e ogni tanto andavo lassù con loro per il fine settimana. Il viaggio in auto durava quattro ore e per me, che avevo sette anni, era assolutamente interminabile. Per farci stare tranquille, la mamma di Kristin di solito ci comperava tre pacchi di fumetti a un distributore di benzina, poco dopo la partenza. Ai distributori i fumetti li vendevano così: tre pacchi di fumetti per bambini, come Richie Rich e Casper, sigillati in un involucro di plastica. L'unico problema di questa piacevole intesa era che li leggevo tutti in un'ora circa, e poi trascorrevo il resto del viaggio con il desiderio di averne altri, chiedendo con voce lamentosa: "Siamo già arrivati?!" [Fine dell'aneddoto]
Possedevo anche la copia di una raccolta di fumetti di Wonder Woman degli anni ‘40 che mi aveva dato (credo) la mia matrigna: era una cosa femminista in stile anni ‘70, contenente molti saggi. Una specie d'approccio storico-revisionistico alla donna nel fumetto. C’era (anzi, c’è) un'introduzione di Gloria Steinem, ma allora non m’interessava. Mi bastava divorare le storie. La cosa divertente è che, durante tutta la mia fanciullezza, andavo in continuazione a riprenderlo per rileggerlo. Ero certa di conservarlo in un punto ben preciso della mia libreria e un bel giorno, mentre cercavo di ricordare dove l’avessi messo l’ultima volta, ebbi l’impressione che potesse essere in due posti diversi. Mossa da ispirazione, li controllai entrambi e, caspita, ne avevo due copie! Non ho proprio idea di come possa essere successo.
A otto anni ho acquisito dei fratellastri (che ho poi perso). Tra di loro ce n’era uno che possedeva un’enorme baule pieno di fumetti, tra i quali un sacco di numeri di Devil. In un certo senso si comportava come il tipico fratello che non ti fa leggere i suoi fumetti, ma ogni tanto ero fortunata.
Ero anche appassionata di cartoni animati. Dovete tenere presente che, quando ero piccola, non li trasmettevano 24 ore su 24 come fanno adesso. Al sabato mattina ne trasmettevano una quantità limitata e vivevo nell'attesa di quel giorno. La mia depressione, tra la fine dei cartoni e l'inizio dei programmi per bambini con attori in carne ed ossa (verso le 11 di mattina), era evidente. Lasciamo poi stare le domeniche. Non trasmettevano cartoni animati! Che desolazione! Durante la mia adolescenza, in TV ne trasmettevano già molti più. Tornavo a casa da scuola e mi mettevo davanti alla tele a guardare per ore Thundercats e spazzatura simile, solo perché erano cartoni animati. Non so proprio per quale ragione.
Dopo qualche anno in cui i fumetti non mi avevano coinvolto molto, a circa 15 anni iniziai di nuovo ad interessarmene. Lavoravo in una ferramenta e andavo a pranzo al grande magazzino White Hench dove, in mezzo alle riviste, avevano una vasta gamma di fumetti. Cominciai a prendere un sacco di roba, precisamente gli albi dei mutanti della Marvel ed Elfquest. Sì, lo so: è imbarazzante, però pensavo che essere una ragazza che leggeva fumetti fosse una cosa molto ribelle e "contro il sistema". L'interesse crebbe e un regalo da parte di mio padre, alcuni Ms. Tree (un fumetto poliziesco in bianco e nero pubblicato dalla First Comics) scritti da un suo cliente, mi diede la spinta per andare a caccia di altro materiale in bianco e nero e di qualsiasi altra cosa che sembrasse interessante. In quel periodo mi sentivo completamente spaesata nelle librerie di fumetti e non avevo idea di che cosa potesse piacermi. Inoltre, non conoscevo nessun altro che li leggesse, così non c’era un’anima con cui poterne parlare. Nel 1987, poco dopo l’inizio dell’università, mi sono imbattuta nel numero 21 di Love & Rockets in un negozio che vendeva dischi e fumetti: questo fumetto mi impressionò enormemente e costituì per me un punto di svolta.
COME HAI INIZIATO?
Pur essendo sempre stata interessata a disegnare, in particolare i volti delle persone (dopo l'inevitabile fase dei cavalli, naturalmente), e a scrivere storie (da piccola ho fatto molti libri illustrati, come l’ormai classico Il mostro che si pappò mr. M... il mio amatissimo insegnante di ginnastica), il mio primo disegno a fumetti in assoluto fu un’illustrazione di una sola vignetta per il giornale della mia scuola superiore, l'Evastonian, di cui sono stata la redattrice della sezione di cronaca durante l'ultimo anno di corso: rappresentava me e i miei migliori amici come membri dei Lilliptians, un finto gruppo musicale, che però aveva un aspetto davvero forte. Facevamo qualcosa che aveva a che fare con un buco nel terreno. Non ricordo che cosa.
Il mio primo vero fumetto fu una storia raccontata in maniera sequenziale, che realizzai durante il mio primo anno d'università per sfuggire alla redazione della tesina del corso di letteratura (questo modo di evitare il lavoro sarebbe poi diventato un "leit-motiv" negli anni dell’università). Feci un versione fantascientifica di Medea e presi il massimo dei voti, principalmente perché credo che l'insegnante non sapesse come inquadrarlo (durante il terzo anno d'università feci una seconda versione di Medea, questa volta come una commedia mafiosa, per il corso "Femminismo e i Classici". Sembra incredibile, ma mi ero dimenticata che solo due anni prima mi ero già occupata di Medea. In ogni caso, ho preso il massimo dei voti anche con questo lavoro). Dopo il mio anno di matricola mi trasferii dal Carlton College all’Università di Chicago e, durante il trimestre autunnale del mio secondo anno, notai che girava nel campus un volantino di un gruppo, interessato ai lavori a fumetti degli studenti e intenzionato a pubblicarli in un'antologia. Mi presentai all'incontro organizzativo e lì incontrai per la prima volta, tra gli altri, Ivan Brunetti. Breakdown (l'antologia in questione) uscì quell'anno, finanziata dall'associazione studentesca. Il mio contributo fu la prima parte di "Junkie": questa storia era stata concepita l’anno precedente quando ero andata a trovare a Berkeley la mia migliore amica delle superiori. Durante quella permanenza, mi mostrò un racconto erotico, scritto di recente, che utilizzava il flusso di coscienza e ne rimasi veramente impressionata. Riguardandolo adesso, è un pò imbarazzante per entrambe, ma allora era molto potente. Comunque, ispirata da un numero infinito di cotte che avevo avuto e sentendo che non sarei mai stata in grado di scrivere in modo così chiaramente efficace, le chiesi se potevo usare la sua storia e scrivere la mia per creare l’ambientazione per il suo racconto. La sua parte divenne una specie di sogno ad occhi aperti (o riflessione) del personaggio principale della mia storia. Tuttavia, la prima parte di "Junkie" è tutta farina del mio sacco e costituisce quanto è apparso nel primo numero di Breakdown.
L'anno successivo, divenni editor di Breakdown e, quasi senza aiuto, feci uscire tre numeri, contenenti alcune mie storie: la seconda parte di "Junkie", alcuni racconti umoristici e dell'altra robaccia auto-commiserativa. Durante l’ultimo anno di università, ero esaurita e non lavorai più per Breakdown, che divenne una fanzine terribilmente incasinata e alla fine sparì. A volte le cose te le devi proprio fare da sola... in quel periodo, ricevetti il permesso di fare un fumetto per il progetto della mia tesi finale e così mi misi a lavorare sodo. Alla fine, realizzai una sceneggiatura di cinque capitoli dal titolo Salt e un capitolo di immagini che mi permise di diplomarmi a pieni voti… non l'ho mai finito e ora sono contenta di non averlo fatto, perché così non uscirà mai da nessuna parte.
Dopo la mia laurea, Ivan Brunetti iniziò a pubblicare un'antologia dal titolo Biff Bang Pow, che presentava molti degli artisti di Breakdown. Ridisegnai alcuni dei miei lavori per Breakdown e, contemporaneamente, ripresi anche "Junkie" perché lo volevo pubblicare da qualche parte. A quel tempo ero certa che non avrei mai fatto niente di altrettanto buono. All'inizio del ‘92, partecipai al concorso pubblicato da Odio! "Vinci un appuntamento con Stinky": una specie di scherzo dove il vincitore sarebbe stato disegnato in una striscia di Odio. Vinsi io e Pete Bagge sarebbe dovuto venire in estate alla Convention di Chicago, così ci mettemmo d'accordo per incontrarci là in modo che mi potesse disegnare. Ero così eccitata che misi insieme il primo numero di Artbabe in tutta fretta in modo da avere qualcosa di presentabile da dare a Pete e Gary Groth, con lo scopo di essere pubblicata dalla Fantagraphics. Beh, non fece un grande effetto su Gary, ma piacque a Pete, e cortesemente la pubblicizzò sul numero 10 di Odio!, l’albo in cui una mia giovane versione incazzata appare in una striscia in quarta di copertina. Fu questo l’inizio della mia carriera nell’autoproduzione, sebbene non l’avessi immaginata così. Questo primo numero ebbe una risposta moderatamente buona, sufficiente a farlo ristampare diverse volte e a convincermi a continuare Artbabe. Così, un anno dopo, pubblicai un altro numero.
QUALI SONO LE TUE PRINCIPALI FONTI D'ISPIRAZIONE NEL CAMPO DEL FUMETTO?
Beh, la prima influenza è stata Wonder Woman, che ho già citato, con il periodo iniziale fino alla prima metà degli anni ‘40 (quello di Charles Moulton e H.G. Peters), assieme a un sacco di libri illustrati per bambini. In seguito, quando iniziai realmente a disegnare fumetti, continuavo a essere presa dalla fantascienza e dai vari albi mutanti della Marvel; più tardi, Il cavaliere oscuro, V for Vendetta e Watchmen ebbero un ruolo importante nello spingermi ad ambientare il mio primo fumetto nello spazio, ma anche a scrivere una sceneggiatura veramente ridondante.
Tuttavia, l’influenza più importante nei miei fumetti fu, senza alcun dubbio, Love & Rockets di Jamie e Gilbert Hernandez (con, di tanto in tanto, il fratello Mario), e in particolare il lavoro di Jamie, che formò il mio concetto di ciò che sono o possono essere i fumetti e mi fecero decidere di diventare un’autrice. Quando ero ancora una tenera matricolina del college, presi il numero 21 e fui "travolta". Cosa ancora più importante, spazzò via tutti i limiti che sapevo su come si facevano i fumetti. Mi innamorai all'istante di Speedy (per i profani: il numero 21 segna l’inizio della storia di Jamie "La morte di Speedy"), L.A. VATOS iniziò ad apparire nei miei quaderni di schizzi e tutto… semplicemente cambiò. Beh, in realtà, non è del tutto vero: rimasi ancora un po’ pretenziosa.
Nello stesso periodo iniziai a leggere Deadline (una rivista antologica inglese) [1] e fui particolarmente influenzata da Philip Bond e dal disegno di Jamie Hewlett (ma non dalla sua scrittura, grazie a Dio). Presi un libro-antologia dal titolo Heck, che era stupefacente. Mi attirava particolarmente la storia di Lloyd Dangle, le prime cose di Julie Doucet e Mark Marek [2]. Questo segnò, penso, l’inizio del mio interesse per fumetti più artistici. Poi arrivò Jimbo, la versione Pantheon dell'indimenticabile, brillante e incredibile opera di Gary Panter [3].
Successivamente, per me fu molto importante Sinner, la traduzione di Alack Sinner di Josè Munoz e Carlos Sampayo, pubblicata da Fantagraphics, e, molto più tardi, Rubber Blanket di David Mazzucchelli. Più recentemente, ho iniziato a riscoprire le strisce classiche, in particolare Terry e i Pirati di Milton Caniff, e, infine, il favoloso lavoro di quel francese, Blutch [4], in particolare la sua serie Mitchum (fortunatamente quasi tutta senza parole per chi, come me, non parla il francese), e Peplum, una straziante rivisitazione del Satyricon.
FAI FUMETTI FEMMINISTI?
Risposta breve: sì. Risposta lunga: questa è veramente una domanda stupida. Leggeteli e capirete da soli. Insomma, è naturale che lo siano! Però chi mi pone questa domanda lo fa presupponendo una cosa più specifica, vale a dire: i miei fumetti hanno un obiettivo femminista? La risposta è no. Sono un’ardente e dichiarata femminista, non ho paura dell’etichetta, ma faccio in modo che la mia visione del mondo non guidi i miei fumetti, ma che, semplicemente, li permei. I miei racconti sono femministi in modo implicito (perché io lo sono), ma non in modo esplicito (perché non è quello di cui m’interessa scrivere). Perché non fanno mai queste domande agli uomini?!
A proposito, gli attenti osservatori dell'attuale zeitgeist culturale potrebbero aver notato nel 1998 un breve articolo che la rivista The Face [5] ha fatto su di me. Teoricamente, avrebbe dovuto essere davvero bello essere promossi da The Face, ma immaginate il mio orrore quando riuscii a mettere le mani sulla copia e scoprii che l’articolo iniziava con l’affermazione assolutamente falsa ed imbarazzante che IO insisterei nell'affermare che NON sono un'autrice femminista, ma un'autrice "femmina". Naturalmente è vero che lo sono, ma non ho mai ripudiato né ripudierei mai i miei forti principi femministi. Pare che il giornalista di The Face si sia in qualche modo impadronito di un articolo su di me, pubblicato dal Chicago Magazine, che iniziava con lo stessa calunnia e che lo abbia semplicemente copiato. Peccato che non abbiano avuto l’idea di rubare anche dal numero successivo, che pubblicava la mia lettera di protesta molto arrabbiata. La mia seconda lettera di protesta a The Face fu pubblicata uno o due numeri dopo, con delle scuse concise, ma ormai il danno era fatto.
Domanda conseguente: il mondo del fumetto è sessista? Posso parlare solo per quanto riguarda il mondo del fumetto "alternativo", e la mia esperienza è che implicitamente forse lo è, ma non certo in modo esplicito. Nessuno mi ha mai detto di non essere interessato a pubblicare/distribuire/vendere/comperare le mie opere perché sono una donna, però ci sono alcune autrici di fumetti, che conosco o di cui mi hanno raccontato, che non vedono il proprio lavoro rappresentato come meriterebbe… ma non ho nessuna idea a riguardo. Forse non siamo abbastanza, però poi ci vengono poste domande stupide come questa. Per quanto riguarda il mondo del fumetto "mainstream", a quanto ne so è sessista, ma non ho un contatto diretto.
Art by Jessica Abel. |
Sì. Fondamentalmente, lavorare molto e disegnare tutti i giorni: in questo non ci sono scorciatoie. Inoltre, fate immediatamente dei "mini-comics", anche se si tratta di realizzarne solo dieci per i vostri migliori amici. Questo è il modo migliore per iniziare a capire come si fanno i fumetti. Per dei consigli più specifici, vi rimando alla sezione DIY in "Comics and Art" (che è ancora in costruzione), contenuta nel mio sito.
PERCHÉ TI SEI TRASFERITA IN MESSICO?
Va bene, partiamo dall'inizio: ho vissuto a Chicago o nei suoi dintorni per quasi tutta la vita (tranne il primo anno di università) ed era ormai da un po’ che stavo riflettendo se andare a vivere all'estero. Certo, ci pensano in molti ma iniziare a muovere le chiappe e trasferirsi è un'altra cosa. Ad ogni modo, alcuni anni fa lavoravo negli uffici amministrativi della "School of Art Institute di Chicago" e cominciai a pensare (sempre di più) di volermi laureare. Io non ho mai frequentato la scuola d'arte e invidiavo molto chi poteva farlo, soprattutto quando ero in mezzo a quei cretini, per lo più benestanti, che sprecavano il loro tempo; tempo prezioso che potrebbe essere speso per giocare con tutti quei giocattoli artistici! Così pensai di laurearmi a Londra e feci domanda per due diverse borse di studio che mi permettessero di andare lì. Nessuna delle due fu accettata. Nel frattempo, incominciai a frequentare Matt Madden, autore di fumetti e grande amore della mia vita, che voleva trasferirsi in Messico per un po’. C’era già stato diverse volte e gli era piaciuto molto, stava imparando lo spagnolo e, cercando di avere la sicurezza di potersi mantenersi lì, frequentava una scuola per ottenere un diploma con cui poter insegnare inglese a un buon livello. Eravamo già dell’idea entrambi di trasferirci, poi il mio beneamato capo si dimise e venne sostituito da un nuovo capo che non era proprio così amato: questo fu l’evento che mi diede lo stimolo finale. In verità, eravamo già a buon punto: questo fatto rese solo la scelta più facile. Così ci trasferimmo nel marzo del 1998, circa sei mesi dopo le dimissioni del vecchio capo.
Da artisti e da persone curiose, sembrava la cosa giusta e fortunatamente abbiamo avuto ragione. Il Messico è il massimo, ci siamo fatti un sacco di amici meravigliosi e abitiamo in un appartamento bellissimo. Il costo della vita qui è veramente basso (specialmente quando, come me, sei pagata in dollari e anche se il mio reddito, per gli standard statunitensi, non può essere considerato "irrisorio"). Se volete sapere qualcosa di più sulla mia vita in Messico, iscrivetevi all’Artbabe Army e tenete d'occhio i miei diari messicani nel quartiere generale dell'Artbabe Army [6].
In futuro, vogliamo trasferirci in Giappone e spero che sia sufficiente estrapolare da questa mia spiegazione i motivi di questa scelta [7].
SEI TU ARTBABE?
Ohhhhhhh, Cristo! No, Artbabe è un personaggio d'immaginazione che adorna le copertine della mia serie e che, di tanto in tanto, appare nelle storie stampate altrove ma, fino ad ora, mai nella serie omonima. È una pittrice e l’ho basata su una persona che ho conosciuto di nome Andrea, che faceva (fa?) la stilista. Detto ciò, anche i miei amici più intimi insistono nel dire che Artbabe sono io, anche se non le somiglio per niente. Chissà perché ne sono davvero convinti. Ma, dico io, un sacco di gente porta gli occhiali, per l'amor del cielo!
Art by Jessica Abel. |
[1] Deadline fu una delle riviste inglesi nate agli inizi degli anni ’80, che dava spazio a una serie di giovani artisti; in seguito, molti di loro avrebbero trovato una discreta continuità di lavoro all’interno della divisione Vertigo della DC Comics. Questa rivista divenne famosa anche perché in queste pagine venne pubblicato per la prima volta il fortunato personaggio "Tank Girl" di Alan Martin e Jamie Hewlett.
[2] Lloyd Dangle è l’autore di Troubletown, una serie dal segno un po’ grezzo e dalle tematiche profondamente arrabbiate e politiche, che tratta soprattutto di persone ai margini della società, viscidi plutocrati, cameriere di fast food e signori delle multinazionali. Attualmente, dopo essere stata pubblicata per tre numeri dalla Drawn & Quarterly, questa serie è approdata su internet, dove ha acquisito una forte notorietà. Julie Doucet è una disegnatrice canadese famosa soprattutto per la serie Dirty Plotte. Profondamente legata al fumetto onirico e a quello auto-biografico, Julie Doucet ha trovato anche ampi consensi nell’ambito dell’illustrazione, realizzando numerose mostre in Europa e in America. Mark Marek è un autore minore che ha avuto collaborazioni trasversali tra fumetto, illustrazione e musica.
[3] Eclettico disegnatore, illustratore, designer e commerciante d’arte, Gary Panter iniziò a lavorare fin dagli anni ’70, legandosi alla scena underground con il fumetto Jimbo, che ha per protagonista un ragazzo punk perso nell’ambientazione fantascientifica di una città chiamata DalTokyo. Il disegno ha uno stile che ricorda il cubismo e che permise all’autore di sperimentare sia a livello grafico che narrativo. Panter lavorò molto con Pee-Wee Herman, lo sfortunato attore del primo film di Tim Burton, con cui realizzò moltissime ambientazioni e il set della sua trasmissione televisiva e, successivamente, fu uno dei collaboratori della rivista Raw, fondata da Art Spiegelman.
[4] Uno dei più interessanti artisti del moderno panorama francese, Blutch si ispira ad autori americani, come Will Eisner e David Mazzucchelli, reinterpretandoli e filtrandoli con una sensibilità europea. Mitchum è una serie di volumetti autoconclusivi slegati l’uno dall’altro, in cui la narrazione canonica dei primi due numeri lascia presto il passo, con il terzo, a uno sviluppo più surreale, in cui l’elemento fondamentale diventa la concatenazione di immagini e di sensazioni. Peplum, nonostante sia stato serializzato originariamente su A Suivre, non ha nulla di classico e adatta Satyricon in modo estremamente moderno, con un segno e una dilatazione del racconto che la rendono una delle opere più interessanti e importanti realizzate in questi ultimi anni in Francia.
[5] Il magazine inglese di tendenza che, dagli anni ’80 in avanti, influenza le riviste di tutto il mondo, grazie alla grafica innovativa e alla costante attenzione all’evoluzione dei trend giovanili in tutti i campi, dalla moda al cinema alla televisione ai fumetti. The Face fu una delle riviste che, durante il cosiddetto Rinascimento del fumetto americano iniziato con opere come Watchmen e Batman: Il ritorno del cavaliere oscuro, diede ampio spazio ad articoli sul fumetto, fino ad arrivare a pubblicare a puntate Apocalisse Personale di Neil Gaiman e Dave McKean, realizzato appositamente per questa rivista.
[6] L’Artbabe Army è l’"esercito" di coloro che si sono iscritti al sito di Jessica Abel.
[7] È passato un po’ di tempo da questa intervista e ci sono stati dei cambiamenti che, all’epoca, non era previsti. Il viaggio in Giappone, per fare una nuova esperienza e verificare le possibilità di lavoro in quel paese, non si è mai concretizzato. Jessica e Matt però sono tornati nel 2000 negli Stati Uniti, si sono sposati e attualmente vivono a New York, dove Jessica continua la sua carriera di autrice di fumetti e illustratrice. Sta già pensando al terzo ciclo di Artbabe che, a differenza dei numeri precedenti, dovrebbe presentare una serie di storie collegate tra loro con dei personaggi fissi.