UNA MOSTRA CON MOLTE AMBIZIONI, MA...
a cura di Omar Martini
A fine giugno, dopo un anno e mezzo di soggiorno a Edimburgo, un evento legato al fumetto è riuscito a farmi uscire dai confini della mia nuova città di adozione. Certo, ogni tanto la tentazione di avventurarsi nella natura “selvaggia” c’era già stata, soprattutto grazie a documentari con doppiatori di eccezione come David Tennant o Ewan McGregor, ma il passo decisivo di prendere un treno non l’avevo ancora fatto. La pigrizia e lo scarso tempo libero si erano rivelati una combinazione letale.
L’oggetto della mia “gita fuori porta” è stata
THE COMIC INVENTION, una mostra organizzata dal professore Laurence Grove e dal curatore Peter Black, che ha avuto luogo dal 18 marzo al 17 luglio presso il museo Hunterian di Glasgow (
qui trovate un breve video introduttivo sull’evento), e che si componeva fondamentalmente di due parti: una serie di esempi di forme di narrazione o opere d’arte che, analogamente al fumetto, uniscono le parole alle immagini, e un’esposizione di tavole originali di
Frank Quitely, il disegnatore di Glasgow famoso soprattutto per le sue numerose e fortunate collaborazioni con Grant Morrison e Mark Millar.
Mi avventuro nella città di Glasgow una domenica mattina, dopo un comodo viaggio in corriera, un’alternativa decisamente più economica rispetto al treno, soprattutto se puoi acquistare in anticipo il biglietto su internet. Armato della mia guida sulla Scozia, aperta diligentemente sulla pagina della mappa della città, mi aggiro tra le vie illuminate da un tiepido sole, che smentisce la canonica previsione di pioggia per questa giornata (in realtà, la pioggia mi accoglierà all’uscita, una volta conclusa la visita al museo). Nonostante non sia prestissimo - le 10.30 circa - le strade sono semivuote e mi sembra di vagare in una cittadina che lentamente e pigramente si sta svegliando. C’è qualche bar aperto, con rari clienti - soprattutto turisti - che entrano per fare colazione, i negozi, soprattutto quelli della zona pedonale, alzano sonnecchiosamente le saracinesche e tutto sembra prendere vita con una certa stanchezza… probabilmente a causa dei postumi alcolici del sabato sera precedente.
Passo attraverso una zona piuttosto verde, con negozietti, una fumetteria che, considerate le copertine scolorite in vetrina, deve essere chiusa da parecchio tempo, e ancora tanti caffè dove fermarsi per uno spuntino o una sosta (anche qui, come a Edimburgo, i posti per mangiare e bere non mancano di certo). Dopo una piacevole camminata di una quarantina di minuti, arrivo al museo Hunterian, collegato all’Università della città, che ospita la mostra oggetto del mio viaggio, oltre a una esposizione di quadri permanente e alla stupefacente
Mackintosh House, la casa dell’omonimo architetto, arredatore, pittore e grafico che si ispirava all’Art Nouveau e di cui conoscevo lo stile e numerose opere, senza però sapere che fossero state realizzate tutte dalla stessa persona, il cui nome non mi era familiare.
In due sale, dove non era possibile realizzare fotografie - è per questa ragione che a corredo di questo testo troverete le riproduzioni delle immagini raccolte su internet e non le foto dell’evento -, si snoda l’intera mostra, suddivisa nettamente nelle due parti precedentemente riassunte e a cui fa da elemento di congiunzione un breve “fotoromanzo” con protagonista Frank Quitely, che spiega che cosa sia il fumetto.
La prima parte è quella più didattica, il cui scopo è fondamentalmente spiegare & mostrare che l’unione tra testo e una sequenza di disegni - o anche semplici immagini - atti a raccontare non è caratteristica esclusiva del fumetto, ma è utilizzato - mutuato? - anche da altre arti, come la pittura, la grafica e la fotografia. L’assunto di partenza è piuttosto ingenuo - o forse è diretto a persone che vengono ritenute completamente digiune su che cosa sia il fumetto -, ma il valore di questa sezione è dato dalle opere raccolte: se alcune sono piuttosto ovvie e scontate, altre risultano piuttosto interessanti e il loro accostamento è in grado di provocare dei collegamenti e dei percorsi inusuali.
|
Andy Warhol, Jackie. |
Si passa, tra le varie cose, dall’immancabile pop art di Andy Warhol (Jackie Kennedy e la lattina della zuppa Campbell), alle due pagine del fumetto pubblicato su
“Girls’ Romances” n. 78 da cui Liechtenstein riprese la celebre immagine della coppia in auto - rielaborata, tra l’altro, nel manifesto della mostra stessa -, a un quadro dell’artista scozzese Eduardo Paolozzi, a una stele egizia, a Boîte D'allumettes di Hervé Telemaque, al bozzetto di Rembrandt della deposizione di Cristo, a The Bastard Offspring e alla litografia Crossroads di Art Spiegelman, in cui sintetizza magnificamente il suo capolavoro Maus, ad alcuni Oscar Mondadori degli anni Settanta-Ottanta dedicati alle storie dei paperi della Disney, a Sueños y mentiras de Franco di Pablo Picasso, a David Hockney con la sua acquaforte The Hypnotist, al collage Horsefeathers 13 di Robert Rauschenberg, alle illustrazioni di guerra di Archie Gilkison, alla serigrafia Kent State di Richard Hamilton, che riproduce la foto di una delle persone colpite durante il massacro alla Kent University, alla litografia del poema-poster Electric Chair di Colin Self.
|
Electric Chair di Colin Self. |
Opere variegate, di alto - spesso altissimo - livello ma che non mi sembrano comporre un percorso specifico, atto a rappresentare un concetto ben definito. L’idea era quella, come si può leggere nel sito dedicato alla mostra, di raccontare per immagini come l’uomo è in grado di raccontare storie usando le immagini, ma l’intera cornice risulta pretestuosa perché il vero “traguardo” dell’intero percorso è arrivare al fumetto, o meglio ancora, al primo fumetto mai pubblicato. Sempre nelle intenzioni dei curatori, ritengono che la cultura contemporanea sia imbevuta dell’intrinseca caratteristica del fumetto di unire testo e immagine, soprattutto grazie alla fondamentale diffusione dei social media, ma questo punto di vista - potenzialmente - originale, questo desiderio di infrangere le barriere tra cultura “alta” e “bassa” rimane nella testa e nelle intenzioni dell’organizzazione e non viene espressa adeguatamente né nell’ordine delle opere esposte né nei brevi testi delle didascalie.
Proseguendo il percorso della mostra, nella sala accanto c’è l’esposizione dedicata alla produzione di Frank Quitely. Ovviamente, la parte del leone la fa la DC Comics, di cui sono presenti tavole legate a The Scottish Connection (1998), la storia di Batman ambientata in Scozia scritta da Alan Grant, e «All-Star Superman» (2005-2008), il ciclo di dodici albi scritti da uno dei due principali collaboratori del disegnatore, Grant Morrison, anche lui di Glasgow. Oltre a queste due fumetti, ci sono alcuni esempi di storie brevi realizzate per testate antologiche come ”Adam & Eve” su testi di Robert Rodi per «Strange Adventures» vol. 2 n. 1 (1999), “Romancing the Stone”, assieme a Ilya, per «Heart Throb» vol. 2 n. 2 (1999), “Watching You” di Bruce Jones per «Flinch» n. 12 (2000) e “Cottingley Fairy Photos”, su testi di Paul M. Yellovich, per il volume The Big Book of Hoaxes della Paradox, la defunta etichetta degli anni Novanta della DC Comics; a tutto questo, si aggiungono le copertine per «Birds of Prey» n. 125 e «Authority» n. 22, nonché una tavola dalla miniserie Flex Mentallo di Grant Morrison (1996). Oltre a questi esempi, che costituiscono la maggioranza delle tavole in esposizione, c’è ben poco altro: un’illustrazione della copertina di “Missionary Man” (1993-1994), una serie di Gordon Rennie pubblicata sul mensile «Judge Dredd Megazine», qualcosa tratto dal ciclo degli X-Men, realizzato assieme a Grant Morrison (2001-2003), e dalla serie Jupiter’s Legacy (2013-2016), su testi di Mark Millar per la Image Comics. Nel complesso, la sua produzione è abbastanza ben rappresentata, sebbene gli esempi siano concentrati quasi esclusivamente su un editore e non ci sia praticamente nulla dei suoi esordi.
|
Frank Quitely, Batman: The Scottish connection. |
L’impressione generale è che, pur offrendo uno sguardo sulla produzione di questo autore, non ci sia un vero e proprio percorso che ne illustri l’evoluzione e le diverse sfaccettature. Sembra tutto un po’ casuale, quasi come se le tavole fossero stati selezionate seconda la disponibilità del momento.
A questo si aggiunge il fatto che ogni tavola di Quitely è affiancata da un’opera che dovrebbe possedere un’affinità con il fumetto esposto oppure potrebbe averla ispirata. Se in alcuni casi questo collegamento è reale, come quando sono state inserite delle informazioni legate al racconto “Cottingley Fairy Photos”, altri esempi sembrano pretestuosi, quasi a voler attribuire una paternità artistico-culturale a tutte le tavole - e, di conseguenza, all’opera - di Quitely. La tendenza a cercare di dimostrare forzatamente il valore e la qualità della mostra si respira un po’ ovunque, quasi a voler motivare, in un luogo così prestigioso, la presenza di un’arte che ancora molte persone considerano minore - e che, per quello che mi sembra di percepire in generale nel territorio UK, non ha ancora raggiunto pienamente, da parte dei suoi autori, quella coscienza diffusa di poter raccontare storie che non si esprimano necessariamente attraverso il genere o i super-eroi.
Questa mancanza di visione nel concepire e realizzare la mostra la si percepisce anche in un altro elemento, sicuramente minore, ma che, poiché “il diavolo si nasconde nei dettagli”, trasmette l’idea di come sia stata concepita l’intera esposizione. Mi riferisco all’organizzazione grafica e alla forma delle didascalie e dei testi che accompagnano le varie opere, fondamentalmente brutta, che cerca, senza un motivo apparente, di riprodurre quei testi come se fossero parte di un fumetto, ma che in realtà trasmette una sensazione di superficialità e dilettantismo. Il font scelto non è quello che si trova normalmente nei pannelli - e che è utilizzato, per esempio, nelle altre esposizioni non di fumetti presenti in quel museo -, ma è un carattere tipografico banale che può/deve dare l’impressione di essere quello che normalmente si trova in un albo a fumetti. A questo si aggiungono dei testi eccessivamente sintetici e senza quelle informazioni necessarie per il percorso che la mostra cerca di portare avanti, nonché l’uso delle convenzioni stilistiche per identificare il titolo delle opere dalle altre parti del testo, oppure per distinguere i titoli di libri, riviste o racconti che non seguono le usuali regole ma mescolano, un po’ a casaccio, i diversi elementi, creando una potenziale confusione nelle informazioni trasmesse al visitatore. Non credo che questa sia la normale procedura portata avanti da una mostra organizzata all’interno di una struttura universitaria - come dimostrato dai testi che invece accompagnano le mostre non di fumetti presenti all’interno dell’Hunterian -, e temo sia invece una sorta di trasgressione delle regole per “avvicinarsi” all’appassionato di fumetti, forse perché si ritiene inconsciamente che abbia bisogno di “strizzatine d’occhi” per potersi avvicinare a una mostra dedicata al proprio argomento preferito.
|
Prima pagina di Glasgow Looking Glass Vol. 1., N. 1. |
L’esposizione si conclude con tre pannelli che presentano i primi esempi di fumetti realizzati su rivista. All’immancabile
Rodolphe Töpffer però si contrappone la rivista «Glasgow Looking Glass», uscita nel biennio 1825-1826, che dovrebbe togliere all’autore svizzero il primato di primo creatore di un fumetto poiché sarebbe stata in realtà quella pubblicazione a stampare quello che potrebbe essere considerato il primo “comics” della storia. Lo studioso e amico Fabio Gadducci mi ha successivamente confermato la correttezza di questa nozione, spiegandomi però che quello è un fatto risaputo tra gli studiosi - come si può anche verificare
in una pagina internet dell’Università di Glasgow, datata giugno 2005. Il problema di questa “scoperta” all’interno della mostra è che la comunicazione dell’esposizione trasmette l’idea che questo sia una scoop di quell’evento e, se da un punto di vista del marketing, questa decisione può essere compresa, da un punto di vista accademico, considerata anche la cornice dove questo evento ha luogo, ritengo sia inappropriata e non veritiera. Se ci sono elementi per riscrivere, per l’ennesima volta, quale possa essere stata l’origine del fumetto e quale possa essere stato l’esemplare o la storia a cui si vuole dare questo primato, al momento non sembra che gli studiosi organizzatori della mostra si siano preoccupati di approfondire questa notizia. Non si sa chi sia l’autore - o gli autori - di questi primi esemplari di storie a fumetti, non si conoscono notizie su come sia “nata” questa forma di racconto: l’unico elemento importante per la mostra sembra che sia quello di negare la paternità a Töpffer e attribuirla, casualmente, proprio a una rivista di Glasgow, confermando per l’ennesima volta una visione un po’ troppo “scozzese-centrica”. Questa approssimazione è confermata anche da altri elementi di quest’ultima parte del percorso. Le didascalie dei pannelli, suddivise in tre parti per illustrare tre momenti storici diversi, tendono a esprimere il primato scozzese senza suffragarlo con molti elementi. Il primo brano, nella sua sintesi, risulta superficiale e non fornisce molte informazioni, l’immagine a corredo riproduce la prima pagina/copertina del primo numero della rivista e non uno di questi primi esempi di fumetto - che sarebbe stato decisamente interessante vedere. I testi delle altre due parti proseguono nell’esporre le informazioni in modo impreciso e incoerente, e trasmettono una fastidiosa irritazione per il modo rozzo e approssimato con cui trattano questo concetto storico.
|
Il catalogo della mostra. |
La mostra ha ovviamente anche un suo catalogo, altrettanto ambizioso e con problemi analoghi a quelli dell’esposizione a cui fa riferimento. Probabilmente ispirato dall’ultima opera di
Chris Ware,
Building Stories, il catalogo dal costo di quasi trenta sterline è composto da una scatola al cui interno “nuotano” cinque albi spillati in carta patinata e di diversi formati: la riproduzione del primo numero del «Glasgow Looking Glass», un albo relativo a questa pubblicazione, un albo dedicato a Fumetto e Cultura, un albo sull’invenzione del fumetto e l’ultimo dedicato a Frank Quitely. Non c’è nessuna possibilità di tenerli ordinati e la qualità della carta, considerato anche il costo complessivo del “catalogo”, non è eccelsa. Le qualità cartotecniche e concettuali dell’ ”oggetto” sembrano essere di nuovo dilettantesche, quasi come se un appassionato avesse visto qualcosa che l’aveva impressionato e avesse provato a riprodurlo senza gusto e capacità. Questo, ritengo, sia il punto meno riuscito della mostra: un oggetto brutto, pretenzioso e con un costo molto alto. Oggettivamente, in questo caso mi posso basare esclusivamente sulla forma e non sul contenuto, su cui non posso esprimere nessun giudizio. Non ho comprato il catalogo, visto che non ero rimasto impressionato né dall’oggetto in sé né dall’impostazione della mostra. È possibile quindi che alcune delle mancanze che ho rilevato nella mostra siano state risolte in questa pubblicazione, ma il costo, decisamente eccessivo, mi ha tolto qualsiasi desiderio di esplorare quell’aspetto. Per cui, concederò il beneficio del dubbio e spererò che tutte le utili informazioni mancanti all’interno della mostra siano in realtà contenute lì.
Altro elemento che non ho avuto modo di verificare di persona sono stati i numerosi eventi che ruotavano attorno: visite guidate e incontri che potevano rappresentare un ottimo modo per tenere viva l’attenzione per tutto il periodo e attirare gli interessati disponibili ad ascoltare discussioni su argomenti come Hogarth e il fumetto, Spiegelman e il disegno di tutto quello che non si può rappresentare, il primo fumetto e Rembrandt come narratore.
In conclusione, la mostra in sé offre l’opportunità di vedere numerose opere interessanti, che siano i disegni di Quitely o gli esempi artistici della sezione “culturale”, in una bella cornice che dà la possibilità di far arrivare il fumetto a un pubblico che, probabilmente, non sarebbe mai andato a vedere questo tipo di esposizione in un altro luogo, e che invece tra un arredamento di Charles Rennie Mackintosh e un quadro di James MacNeill Whistler, possono scoprire e, forse, apprezzare la qualità della proposta. Tutto questo però viene ridimensionato dalla superficialità con cui è stata organizzata la mostra e dalla tendenza, quasi ossessiva, a voler dimostrare una “supremazia” scozzese, dalle scelte delle collaborazioni di Quitely al modo, poco scientifico, con cui viene presentato, quasi fosse una novità, la “scoperta” del primo esempio stampato di fumetto. Questi elementi mettono in luce come lo spirito che ha guidato questa operazione sia piuttosto regionalistico e a tratti un po’ ingenuo.
Un’occasione sprecata, che può forse accontentare il visitatore occasionale, ma non l’appassionato con un minimo di conoscenza del settore e della storia del fumetto.