Alan Moore ritratto da Jonathan Edwards |
Tradotta in Italiano su smokyland con il permesso dell’autrice.
Il risultato netto? Un'intervista fiume, come sempre molto intrigante, dal Bardo del Fumetto mondiale che racconta del suo nuovo romanzo, discetta di fisica e modelli dell'Universo, di underground e politica e... della morte. :)
Insomma... buon lettura! ;)
Iniziamo parlando di Jerusalem, a cui lavori da tre anni…
Alan Moore: Quando ho iniziato a scriverlo credo fosse il 2008. Vorrei far notare che per il mio romanzo precedente, che era molto più piccolo, ho impiegato cinque anni. Così se Jerusalem mi richiedesse ancora un altro anno, farei comunque meglio.
Qualche sera fa durante una delle mie partecipazioni a Uncaged Monkeys all’Hammersmith Apollo ho parlato col Professor Steve Jones.
Gli ho parlato di Jerusalem, e del fatto che avevo scritto circa due terzi del libro e, in tutto, erano oltre mezzo milione di parole. E ha replicato: “Sai, è un numero maggiore di quelle contenute nella Bibbia.” Una cosa che mi ha fatto molto piacere. Spero solo che chiunque confonderà la quantità con la qualità. Senza dubbio si tratta di un libro bello grosso.
Lucia Joyce |
Una volta finito arriverà al milione?
AM: Credo sarà sui tre quarti. Nella parte finale del libro, la terza, ho deciso di spingermi ancora oltre con la storia, per fare in modo che non sembrasse in calando.
Questi ultimi capitoli sono ognuno, a modo proprio, piuttosto difficili. La loro lunghezza varia ma il capitolo su Lucia Joyce è stato il motivo che mi ha spinto a iniziare la pubblicazione di Dodgem Logic in modo da prendermi una pausa di 18 mesi dallo scrivere Jerusalem.
È il capitolo più lungo del libro. Si sviluppa per circa 35 pagine a singola spaziatura ed è del tutto incomprensibile. È scritto in una specie di flusso di coscienza joyciano, completamente inventato. L’ho riletto di nuovo e ne ho capito la maggior parte… no, l’ho capito tutto. È il solo modo in cui sarei riuscito a scrivere una cosa simile. È stato un esperimento.
Il capitolo precedente, che ho finito poco fa, l’ho scritto nella forma di una pièce di Samuel Beckett.
Con lo stesso Beckett come personaggio e Thomas Becket, giusto per rendere la storia ancora più disorientante, e John Clare, John Bunyan e vari altri che compaiono come fantasmi.
È una piccola opera teatrale ambientata in un portico di una chiesa gotica, a Northampton. C’è un fatto da notate: Samuel Beckett è stato a Northampton. La prima volta venne per giocare a cricket contro la squadra locale. C’è un campo da cricket alla fine della strada dove abito. Nel Wisden's Almanac è riportato che Beckett giocò contro il Northampton e che, quella notte, tutti i suoi compagni di squadra decisero di fare visita ai numerosi pub e di andare a prostitute, tutte cose per cui Northampton era principalmente nota (dopo gli stivali e le scarpe).Sto riambientando l’evento nel capitolo 29, come parte della mia piccola pièce.
Non ho idea di quanto saranno lunghi i capitoli della parte finale del libro. Sono tutti degli esperimenti.
Nell’epoca di Twitter, non sei per nulla preoccupato che nessuno riuscirà a finire di leggerlo?
AM: Per nulla, fintanto che IO riesca a finirlo. Questa è la cosa più importante. Naturalmente, ho persino avuto il dubbio che la gente riesca a sollevarlo. Alla fine sarà un libro bello grosso. Oggi parlavo con alcune persone che potrebbero essere coinvolte nella sua pubblicazione, e mi suggerivano: “perché non ci rivolgiamo ad un editore che pubblica la Bibbia? Facciamolo stampare su carta per Bibbia?”
Come se fosse un corposo messale?
AM: Sarebbe fantastico, no? Comunque non sono contrario all’idea di un qualche tipo di ebook, dopotutto. Probabilmente non lo leggerei perché non mi ritrovo con quel tipo di tecnologia ma non sono contrario all’idea che possa essere disponibile in quella forma.
Fintanto che potrò avere il mio voluminoso, invalidantemente pesante libro da mettere nella mia libreria e poterlo guardare gongolando, allora sarò felice.
E riguardo al fatto se la gente lo leggerà o meno, chi può dirlo? Potrebbe finire come per Dal Big Bang ai buchi neri. Breve storia del tempo che la gente ama avere nella propria libreria - anche se bisogna vedere se avremo ancora delle librerie in futuro - ma non è detto che l’abbiano letto.
Mi piace pensare che la gente arriverà alla fine perché sarà un libro molto scorrevole, a parte il capitolo su Lucia Joyce, che è del tutto incomprensibile. Il resto è probabilmente molto più accessibile di quanto lo siano diversi miei lavori precedenti. Ho cercato di far passare in questo libro alcuni concetti piuttosto importanti e strani per cui ho pensato che sarebbe stato meglio esprimerli in termini semplici e accessibili.
E uno degli argomenti è “confutare l’esistenza della morte”.
AM: Ho pensato che fosse un progetto fondamentale da affrontare nei miei anni di declino. C’è molta altra roba nel libro ma una delle tesi centrali si basa sulle mie riflessioni sui concetti di mortalità e di tempo.
Mi sembra che, se ho capito correttamente quello che dicono persone come Stephen Hawking… allora significa che viviamo in un universo che ha almeno quattro dimensioni. Parlavo da poco con un teorico delle stringhe e lui riteneva che le dimensioni fossero, probabilmente, undici.
È piuttosto divertente perché ho intervistato Brian Greene di recente. E ha detto che le dimensioni sono tutte attorcigliate tra loro, come un filo in un tappeto.
AM: Dimensioni piccolissime e collassate che sono nascoste dentro quelle a noi familiari. Credo che ce ne siano almeno quattro e se questo è corretto, la quarta dimensione non è un qualche piano mistico. È una dimensione, esattamente come le altre. È una dimensione fisica e materiale.
Quando Einstein parla del fatto che lo spazio-tempo ha una curvatura, allora dal momento che lo spazio-tempo include le tre dimensioni a noi familiari, questo implica che deve curvarsi attraverso la quarta dimensione, e questo suggerisce che la quarta dimensione, da come capisco, non è il tempo. Ma è la nostra percezione del passare del tempo. L’universo è un solido quadridimensionale nel quale nulla si sta muovendo e nulla sta cambiando.
La sola cosa che si muove attraverso quel solido, lungo l’asse temporale, è la nostra coscienza. Il passato è ancora lì, il futuro è sempre stato lì e, in questo gigantesco solido, ogni momento che è esistito - o che esisterà - esiste, in modo contiguo, nello stesso momento.
In questo gigantesco iper-momento dello spazio-tempo, che include tutti gli istanti che costituiscono la vita di ciascuna persona, mi sembra che nulla stia andando da qualche parte. Pensa a un normale viaggio attraverso le tre dimensioni: percorri in macchina una strada, ad esempio. Ora quelle case dietro di te stanno sparendo, non puoi più vederle. Ma non dubiti che invertendo la direzione di marcia quelle case saranno ancora lì.
Il fatto è che la nostra coscienza si muove solo in una direzione attraverso il tempo. Non possiamo tornare indietro. Ma credo che quello che i fisici ci dicono è che quei momenti sono ancora lì e credo che quando arriveremo alla fine della nostra vita, ai 70 o 80 anni della nostra vita, si tratta solo di una dimensione fisica… è quanto a “lungo” siamo stati nel tempo e quando la nostra coscienza arriva alla fine della nostra vita, non ha altro posto dove andare se non tornare all’inizio.
Così rivivremo la nostra vita ancora e ancora e ancora, all’infinito, e ogni volta penseremo esattamente le stesse cose, diremo esattamente le stesse cose, faremo esattamente le stesse cose che abbiamo fatto e detto la prima volta. È persino privo di significato parlare di una “prima” volta.
Ho creduto d’aver avuto io quest’idea perché… sono un genio. Ma risulta che i Pitagorici avessero una sorta di loro versione: l’ “eterno ritorno”. Basavano la loro idea sul fatto che quando questo universo finisce, poiché il tempo è infinito, allora devono esserci degli altri universi e, dal momento che quegli universi sono finiti, ci deve essere alla fine un altro universo esattamente come il nostro, cosa che non credo sia scientificamente plausibile.
Mentre quest’idea della “dimensionalità” della nostra esistenza si regge in piedi. Non riesco a vedere un altro modo che non implichi violare completamente uno dei fondamentali pilastri della fisica moderna e, mentre lavoravo a Jerusalem, mi sono imbattuto in una splendida citazione di Albert Einstein che riassume perfettamente quello che stavo cercando di dire ma in modo molto eloquente e con molte meno parole del mio tre quarti di milione. Sembra che stesse consolando la vedova di un collega fisico - questo avveniva appena qualche mese prima della morte dello stesso Einstein – e lui le disse: “Per un fisico come me, la morte non è una cosa così rilevante”, ma sto parafrasando. Disse: “La morte non è una cosa così rilevante perché capisco la persistente illusione della transitorietà.”
Penso che la “persistente illusione della transitorietà” dica tutto. La persistente illusione che le cose passino. Le persone, gli eventi, i luoghi… io non credo che passino. Penso che, in un certo senso, ogni momento sia eterno. Non sto cercando di fondare una religione e noterai che tutto questo discorso non richiede la presenza di un Dio.
Non si tratta di un aldilà, è solo la nostra vita. Trovo sia una interessante e laica idea di “continuità” che credo sia scientificamente credibile. E indipendentemente dal fatto che sia vera o meno, non sarebbe un brutto modo di vivere.
AM: Credo sarà sui tre quarti. Nella parte finale del libro, la terza, ho deciso di spingermi ancora oltre con la storia, per fare in modo che non sembrasse in calando.
Questi ultimi capitoli sono ognuno, a modo proprio, piuttosto difficili. La loro lunghezza varia ma il capitolo su Lucia Joyce è stato il motivo che mi ha spinto a iniziare la pubblicazione di Dodgem Logic in modo da prendermi una pausa di 18 mesi dallo scrivere Jerusalem.
È il capitolo più lungo del libro. Si sviluppa per circa 35 pagine a singola spaziatura ed è del tutto incomprensibile. È scritto in una specie di flusso di coscienza joyciano, completamente inventato. L’ho riletto di nuovo e ne ho capito la maggior parte… no, l’ho capito tutto. È il solo modo in cui sarei riuscito a scrivere una cosa simile. È stato un esperimento.
Il capitolo precedente, che ho finito poco fa, l’ho scritto nella forma di una pièce di Samuel Beckett.
Con lo stesso Beckett come personaggio e Thomas Becket, giusto per rendere la storia ancora più disorientante, e John Clare, John Bunyan e vari altri che compaiono come fantasmi.
È una piccola opera teatrale ambientata in un portico di una chiesa gotica, a Northampton. C’è un fatto da notate: Samuel Beckett è stato a Northampton. La prima volta venne per giocare a cricket contro la squadra locale. C’è un campo da cricket alla fine della strada dove abito. Nel Wisden's Almanac è riportato che Beckett giocò contro il Northampton e che, quella notte, tutti i suoi compagni di squadra decisero di fare visita ai numerosi pub e di andare a prostitute, tutte cose per cui Northampton era principalmente nota (dopo gli stivali e le scarpe).Sto riambientando l’evento nel capitolo 29, come parte della mia piccola pièce.
Non ho idea di quanto saranno lunghi i capitoli della parte finale del libro. Sono tutti degli esperimenti.
Nell’epoca di Twitter, non sei per nulla preoccupato che nessuno riuscirà a finire di leggerlo?
AM: Per nulla, fintanto che IO riesca a finirlo. Questa è la cosa più importante. Naturalmente, ho persino avuto il dubbio che la gente riesca a sollevarlo. Alla fine sarà un libro bello grosso. Oggi parlavo con alcune persone che potrebbero essere coinvolte nella sua pubblicazione, e mi suggerivano: “perché non ci rivolgiamo ad un editore che pubblica la Bibbia? Facciamolo stampare su carta per Bibbia?”
Come se fosse un corposo messale?
AM: Sarebbe fantastico, no? Comunque non sono contrario all’idea di un qualche tipo di ebook, dopotutto. Probabilmente non lo leggerei perché non mi ritrovo con quel tipo di tecnologia ma non sono contrario all’idea che possa essere disponibile in quella forma.
Fintanto che potrò avere il mio voluminoso, invalidantemente pesante libro da mettere nella mia libreria e poterlo guardare gongolando, allora sarò felice.
E riguardo al fatto se la gente lo leggerà o meno, chi può dirlo? Potrebbe finire come per Dal Big Bang ai buchi neri. Breve storia del tempo che la gente ama avere nella propria libreria - anche se bisogna vedere se avremo ancora delle librerie in futuro - ma non è detto che l’abbiano letto.
Mi piace pensare che la gente arriverà alla fine perché sarà un libro molto scorrevole, a parte il capitolo su Lucia Joyce, che è del tutto incomprensibile. Il resto è probabilmente molto più accessibile di quanto lo siano diversi miei lavori precedenti. Ho cercato di far passare in questo libro alcuni concetti piuttosto importanti e strani per cui ho pensato che sarebbe stato meglio esprimerli in termini semplici e accessibili.
E uno degli argomenti è “confutare l’esistenza della morte”.
AM: Ho pensato che fosse un progetto fondamentale da affrontare nei miei anni di declino. C’è molta altra roba nel libro ma una delle tesi centrali si basa sulle mie riflessioni sui concetti di mortalità e di tempo.
Mi sembra che, se ho capito correttamente quello che dicono persone come Stephen Hawking… allora significa che viviamo in un universo che ha almeno quattro dimensioni. Parlavo da poco con un teorico delle stringhe e lui riteneva che le dimensioni fossero, probabilmente, undici.
È piuttosto divertente perché ho intervistato Brian Greene di recente. E ha detto che le dimensioni sono tutte attorcigliate tra loro, come un filo in un tappeto.
AM: Dimensioni piccolissime e collassate che sono nascoste dentro quelle a noi familiari. Credo che ce ne siano almeno quattro e se questo è corretto, la quarta dimensione non è un qualche piano mistico. È una dimensione, esattamente come le altre. È una dimensione fisica e materiale.
Quando Einstein parla del fatto che lo spazio-tempo ha una curvatura, allora dal momento che lo spazio-tempo include le tre dimensioni a noi familiari, questo implica che deve curvarsi attraverso la quarta dimensione, e questo suggerisce che la quarta dimensione, da come capisco, non è il tempo. Ma è la nostra percezione del passare del tempo. L’universo è un solido quadridimensionale nel quale nulla si sta muovendo e nulla sta cambiando.
La sola cosa che si muove attraverso quel solido, lungo l’asse temporale, è la nostra coscienza. Il passato è ancora lì, il futuro è sempre stato lì e, in questo gigantesco solido, ogni momento che è esistito - o che esisterà - esiste, in modo contiguo, nello stesso momento.
In questo gigantesco iper-momento dello spazio-tempo, che include tutti gli istanti che costituiscono la vita di ciascuna persona, mi sembra che nulla stia andando da qualche parte. Pensa a un normale viaggio attraverso le tre dimensioni: percorri in macchina una strada, ad esempio. Ora quelle case dietro di te stanno sparendo, non puoi più vederle. Ma non dubiti che invertendo la direzione di marcia quelle case saranno ancora lì.
Il fatto è che la nostra coscienza si muove solo in una direzione attraverso il tempo. Non possiamo tornare indietro. Ma credo che quello che i fisici ci dicono è che quei momenti sono ancora lì e credo che quando arriveremo alla fine della nostra vita, ai 70 o 80 anni della nostra vita, si tratta solo di una dimensione fisica… è quanto a “lungo” siamo stati nel tempo e quando la nostra coscienza arriva alla fine della nostra vita, non ha altro posto dove andare se non tornare all’inizio.
Così rivivremo la nostra vita ancora e ancora e ancora, all’infinito, e ogni volta penseremo esattamente le stesse cose, diremo esattamente le stesse cose, faremo esattamente le stesse cose che abbiamo fatto e detto la prima volta. È persino privo di significato parlare di una “prima” volta.
Ho creduto d’aver avuto io quest’idea perché… sono un genio. Ma risulta che i Pitagorici avessero una sorta di loro versione: l’ “eterno ritorno”. Basavano la loro idea sul fatto che quando questo universo finisce, poiché il tempo è infinito, allora devono esserci degli altri universi e, dal momento che quegli universi sono finiti, ci deve essere alla fine un altro universo esattamente come il nostro, cosa che non credo sia scientificamente plausibile.
Mentre quest’idea della “dimensionalità” della nostra esistenza si regge in piedi. Non riesco a vedere un altro modo che non implichi violare completamente uno dei fondamentali pilastri della fisica moderna e, mentre lavoravo a Jerusalem, mi sono imbattuto in una splendida citazione di Albert Einstein che riassume perfettamente quello che stavo cercando di dire ma in modo molto eloquente e con molte meno parole del mio tre quarti di milione. Sembra che stesse consolando la vedova di un collega fisico - questo avveniva appena qualche mese prima della morte dello stesso Einstein – e lui le disse: “Per un fisico come me, la morte non è una cosa così rilevante”, ma sto parafrasando. Disse: “La morte non è una cosa così rilevante perché capisco la persistente illusione della transitorietà.”
Penso che la “persistente illusione della transitorietà” dica tutto. La persistente illusione che le cose passino. Le persone, gli eventi, i luoghi… io non credo che passino. Penso che, in un certo senso, ogni momento sia eterno. Non sto cercando di fondare una religione e noterai che tutto questo discorso non richiede la presenza di un Dio.
Non si tratta di un aldilà, è solo la nostra vita. Trovo sia una interessante e laica idea di “continuità” che credo sia scientificamente credibile. E indipendentemente dal fatto che sia vera o meno, non sarebbe un brutto modo di vivere.
"Visualizzazione" di un Multiverso |
Devo dire che l’idea che più mi attira è quella di un “multiverso” infinito in cui qualsiasi cosa può accadere. Ogni possibile azione che si possa fare.
AM: La trovo un’idea orribile perché non implica forse che qualsiasi cosa tu faccia, c’è un “altro te” che l’ha fatta meglio?
Certo, ma c’è un “altro me” che l’ha fatta peggio.
AM: È vero, così alla fine dei conti, è una specie di relativizzazione della morale o si sminuisce l’esistenza. Ricordo d’aver letto una storia di Larry Niven, uno scrittore che non mi piace affatto, che parla di un investigatore privato che sta indagando su una serie di suicidi e alla fine li collega ad un articolo sulla stampa che afferma l’esistenza effettiva di universi paralleli, l’esistenza di un numero infinito di mondi alternativi in cui esiste un numero infinito di versioni di te stesso. E l’investigatore pensa a questa notizia e ipotizza possa essere la causa dei suicidi.
C’è un po’ di disperazione esistenziale all’idea che per quanto bene tu possa agire, c’è un milione di altri te stesso che sta soffrendo in circostanze orribili e un miliardo di altri te stesso che hanno fatto molto meglio. L’investigatore sta riflettendo su questo, prende la pistola dalla sua scrivania e se la punta alla tempia e rimane lì fermo per un secondo e poi pensa: “no, no, nessuno si uccide per un oscuro ragionamento filosofico.”
E rimette la pistola di nuovo nel cassetto. E preme il grilletto e la pistola non fa fuoco. E preme il grilletto e il proiettile rimbalza sul soffitto. E preme il grilletto e si fa esplodere la testa… Alla fine della storia c’è tutta questa serie di diversi finali, che accadono in questo o in quell’altro mondo parallelo.
Ci sono molte persone che trovano l’idea di rivivere in eterno la propria vita una cosa terrificante; altri trovano la cosa molto confortante. Altri ancora ne sono spaventati.
Non mi importerebbe fintanto che non ne fossi consapevole.
AM: Questa è la cosa bella di un’idea simile. Un altro aspetto di questo “credo” è che non ci sarebbe alcun libero arbitrio. Un argomento che, ho notato, è emerso spesso di recente su The New Scientist. L’idea che viviamo in un universo deterministico.
C’è una scena nel mio libro in cui una di queste figure di angeli simbolici, un po’ giocatori da biliardo proletari, sta parlando con una persona che gli chiede… non possiamo chiamarli “angeli”, perché non sono angeli come quelli nelle cartoline natalizie, sono un po’ più “concreti”… comunque l’umano sta parlando con uno di questi “operai celesti” e gli chiede: “Senti, ma noi, tutti noi, abbiamo mai avuto davvero il libero arbitrio?” E l’angelo scuote la testa e risponde: “No… Ti è mancato?” Poi entrambi iniziano a ridere.
Per quello che posso capire, non è importante che abbiamo il libero arbitrio fintanto che abbiamo l’illusione che ci sia un libero arbitrio, in modo tale, da non uscire fuori di testa. Abbiamo l’illusione che ci sia il libero arbitrio. Ci sembra che ogni momento che viviamo accada per la prima volta, che avremmo potuto fare qualsiasi cosa, che avremmo potuto dire qualsiasi cosa, ma questo non sembra essere la direzione in cui sta andando la scienza.
Il mio scienziato preferito – principalmente perché ha un nome davvero incredibile – si chiama Gerard’t Hooft. Sta lavorando a una teoria che non può essere testata perché non abbiamo dei microscopi ad effetto tunnel in grado di farlo, ma quello che propone è che ci sia un livello ancora più fondamentale di quello quantico, in cui tutte le caratteristiche di indeterminazione della meccanica quantistica, che sono così strane e peculiari, verrebbero risolte come se non ci fossero mai state, riuscendo così a conciliare perfettamente il modello classico con quello quantistico. L’unico problema è che, stante questa teoria, senza indeterminazione quantistica non ci sarebbe alcun libero arbitrio.
Così sembra che ci siano diverse forze che vanno in quella direzione e stanno dibattendo sul fatto che se scoprissimo che non c’è il libero arbitrio, la conseguenza non sarebbe che potremmo darci alla violenza sfrenata? Il fatto è che la maggior parte delle persone sarebbe “predeterminata” a non credere [che siamo privi di libero arbitrio].
Sì, inoltre, tutti crediamo in qualcosa. Puoi andare in giro dicendo che è tutta un’illusione ma avrà comunque delle ripercussioni su come la gente ti tratta. Mi capita spesso di riscontrare un comportamento simile quando gioco con i videogame: sono patologicamente predisposta ad essere gentile con tutti, perché voglio che i personaggi del gioco mi trattino come se fossi una brava persona, anche se non ci sono delle conseguenza morali e tutto si svolte in un mondo virtuale. È un qualcosa di radicato.
AM: È così. Non gioco mai con i videogame ma mia moglie Melinda [Gebbie] ha oziosamente speso diverse ore preziose della sua vita con loro e mi stava dicendo di un gioco in cui aveva fatto qualcosa di malvagio – perché pensava che, nelle prime fasi del gioco, dovesse agire così – e, di conseguenza, per tutto il resto del gioco il suo personaggio era sempre bersagliato dagli abitanti del villaggio che le ricordavano che aveva mangiato dei gattini o una cosa del genere…
AM: La trovo un’idea orribile perché non implica forse che qualsiasi cosa tu faccia, c’è un “altro te” che l’ha fatta meglio?
Certo, ma c’è un “altro me” che l’ha fatta peggio.
AM: È vero, così alla fine dei conti, è una specie di relativizzazione della morale o si sminuisce l’esistenza. Ricordo d’aver letto una storia di Larry Niven, uno scrittore che non mi piace affatto, che parla di un investigatore privato che sta indagando su una serie di suicidi e alla fine li collega ad un articolo sulla stampa che afferma l’esistenza effettiva di universi paralleli, l’esistenza di un numero infinito di mondi alternativi in cui esiste un numero infinito di versioni di te stesso. E l’investigatore pensa a questa notizia e ipotizza possa essere la causa dei suicidi.
C’è un po’ di disperazione esistenziale all’idea che per quanto bene tu possa agire, c’è un milione di altri te stesso che sta soffrendo in circostanze orribili e un miliardo di altri te stesso che hanno fatto molto meglio. L’investigatore sta riflettendo su questo, prende la pistola dalla sua scrivania e se la punta alla tempia e rimane lì fermo per un secondo e poi pensa: “no, no, nessuno si uccide per un oscuro ragionamento filosofico.”
E rimette la pistola di nuovo nel cassetto. E preme il grilletto e la pistola non fa fuoco. E preme il grilletto e il proiettile rimbalza sul soffitto. E preme il grilletto e si fa esplodere la testa… Alla fine della storia c’è tutta questa serie di diversi finali, che accadono in questo o in quell’altro mondo parallelo.
Ci sono molte persone che trovano l’idea di rivivere in eterno la propria vita una cosa terrificante; altri trovano la cosa molto confortante. Altri ancora ne sono spaventati.
Non mi importerebbe fintanto che non ne fossi consapevole.
AM: Questa è la cosa bella di un’idea simile. Un altro aspetto di questo “credo” è che non ci sarebbe alcun libero arbitrio. Un argomento che, ho notato, è emerso spesso di recente su The New Scientist. L’idea che viviamo in un universo deterministico.
C’è una scena nel mio libro in cui una di queste figure di angeli simbolici, un po’ giocatori da biliardo proletari, sta parlando con una persona che gli chiede… non possiamo chiamarli “angeli”, perché non sono angeli come quelli nelle cartoline natalizie, sono un po’ più “concreti”… comunque l’umano sta parlando con uno di questi “operai celesti” e gli chiede: “Senti, ma noi, tutti noi, abbiamo mai avuto davvero il libero arbitrio?” E l’angelo scuote la testa e risponde: “No… Ti è mancato?” Poi entrambi iniziano a ridere.
Per quello che posso capire, non è importante che abbiamo il libero arbitrio fintanto che abbiamo l’illusione che ci sia un libero arbitrio, in modo tale, da non uscire fuori di testa. Abbiamo l’illusione che ci sia il libero arbitrio. Ci sembra che ogni momento che viviamo accada per la prima volta, che avremmo potuto fare qualsiasi cosa, che avremmo potuto dire qualsiasi cosa, ma questo non sembra essere la direzione in cui sta andando la scienza.
Il mio scienziato preferito – principalmente perché ha un nome davvero incredibile – si chiama Gerard’t Hooft. Sta lavorando a una teoria che non può essere testata perché non abbiamo dei microscopi ad effetto tunnel in grado di farlo, ma quello che propone è che ci sia un livello ancora più fondamentale di quello quantico, in cui tutte le caratteristiche di indeterminazione della meccanica quantistica, che sono così strane e peculiari, verrebbero risolte come se non ci fossero mai state, riuscendo così a conciliare perfettamente il modello classico con quello quantistico. L’unico problema è che, stante questa teoria, senza indeterminazione quantistica non ci sarebbe alcun libero arbitrio.
Così sembra che ci siano diverse forze che vanno in quella direzione e stanno dibattendo sul fatto che se scoprissimo che non c’è il libero arbitrio, la conseguenza non sarebbe che potremmo darci alla violenza sfrenata? Il fatto è che la maggior parte delle persone sarebbe “predeterminata” a non credere [che siamo privi di libero arbitrio].
Sì, inoltre, tutti crediamo in qualcosa. Puoi andare in giro dicendo che è tutta un’illusione ma avrà comunque delle ripercussioni su come la gente ti tratta. Mi capita spesso di riscontrare un comportamento simile quando gioco con i videogame: sono patologicamente predisposta ad essere gentile con tutti, perché voglio che i personaggi del gioco mi trattino come se fossi una brava persona, anche se non ci sono delle conseguenza morali e tutto si svolte in un mondo virtuale. È un qualcosa di radicato.
AM: È così. Non gioco mai con i videogame ma mia moglie Melinda [Gebbie] ha oziosamente speso diverse ore preziose della sua vita con loro e mi stava dicendo di un gioco in cui aveva fatto qualcosa di malvagio – perché pensava che, nelle prime fasi del gioco, dovesse agire così – e, di conseguenza, per tutto il resto del gioco il suo personaggio era sempre bersagliato dagli abitanti del villaggio che le ricordavano che aveva mangiato dei gattini o una cosa del genere…
Immagine dal videogioco Fable |
AM: Sì, era Fable.
Ti puntano il dito contro e dicono: “L’hai ucciso, l’hai fatto”. E tu: “Mi spiace! Non volevo.”
AM: Melinda stava iniziando a sentirsi davvero in colpa per questi gattini, o quello che erano, che aveva mangiato, quasi come se fosse successo nella vita reale, perché la disapprovazione degli abitanti di quel villaggio iniziava a pesarle. Naturalmente sono cose che succedono.
La prima volta che ho sentito parlare di “realtà virtuale” nell’ambito dei videogame, il mio primo pensiero è stato: perché l’altra come è? È tutto molto virtuale, no? Non facciamo esperienza diretta della realtà; facciamo esperienza delle nostre percezioni.
In un certo senso, questa è già una “realtà virtuale”. Perciò non è una sorpresa che la disapprovazione di un gruppo di personaggi di un videogame ti possa colpire come quella manifestata da persone in quella che appare essere la vita reale.
L’avevo già notato quando mi dilettavo con Space Invaders o Tetris. In pratica, parecchio tempo fa, ho scoperto che, cose che non stavano davvero accadendo, mi causavano picchi di adrenalina e stress… avevo delle reazioni viscerali a causa di qualcosa che vedevo su uno schermo, anche se era un qualcosa di basso livello, probabilmente legata ai neuroni specchio.
Tendiamo ad avere una strana esperienza di quello che vediamo. Se vediamo qualcuno fare una certa azione, una parte del nostro cervello si attiva come se stessi eseguendo esattamente la stessa azione. Per cui deve succedere qualcosa del genere quando si gioca con i videogame. Alla fine mi ritrovavo ad essere arrabbiato, soprattutto con me stesso perché giocavo troppo a lungo ma...
È una cosa che accade anche con i libri, no? Se ti identifichi profondamente con i personaggi, allora ti emozioni al loro posto, in particolare in situazioni di imbarazzo o da cui traggono vantaggio.
AM: Esatto. Ad esempio guardando quelle “commedie crudeli” in stile post-Ricky Gervais, dovevo cambiare canale o, per lo meno, mi succedeva quando ancora avevo un televisore. Di fronte ad un passaggio particolarmente crudele, anche se era un personaggio specifico che stava per essere umiliato, non volevo vederlo. Mi ero immedesimato troppo.
Quando ho sentito parlare dei neuroni specchio ho pensato: “scommetto che si applica non solo al caso di una vera persona che fa qualcosa, ma anche ad un film in cui c’è una persona che fa qualcosa; scommetto che si applica alla fotografia di qualcuno che fa qualcosa, scommetto si applica al caso di un testo ben scritto.”
Capita che, se vedo qualcuno alla televisione o al cinema affacciato ad un davanzale oppure in alto, in una posizione precaria, allora incominciano a sudarmi le mani e ho la sensazione di stare per scivolare. Se leggo un testo che racconta la stessa cosa ho la stessa reazione, è credo che sia una cosa interessante perché come scrittore il mio interesse è quello di suscitare delle autentiche reazioni fisiche nei miei lettori. Se scrivo su un argomento abbastanza bene, è possibile mettere il lettore, seppur momentaneamente, nella stessa situazione estrema di cui stai scrivendo?
Epocale pagina da Watchmen |
In particolare se stai scrivendo storie di supereroi, considerando che a loro vengono permesse azioni che sarebbero terribili se permesse ad una persona reale.
AM: Non scrivo più storie di supereroi. Ho cambiato drasticamente la mia opinione sui supereroi circa cinque o sei anni fa, ma quando li scrivevo mi sembrava che, dal punto di vista della morale, fosse più importante mettere in discussione per davvero il concetto di eroismo e, nello specifico, di super-eroismo.
Credo sia un concetto pericoloso se non lo si esamina. Adolf Hitler era un eroe per i tedeschi. Molti di quelli che vengono descritti come eroi, forse erano degli psicopatici, non avevano la stessa razionale percezione della paura o della propria mortalità delle persone normali… Oliver North è stato considerato un eroe da una gran parte degli Americani.
È un concetto pericoloso, ed è una delle cose che ho cercando di dire in Watchmen. Ho cercato di dirlo nel modo più viscerale possibile, portando il lettore in luoghi sorprendenti e spiazzanti, perché volevo che le mie idee arrivassero nel modo più potente possibile e si imprimessero su chi leggeva.
E non credo che, così facendo, si faccia un disservizio al lettore. Viviamo in un mondo in cui gran parte della cultura che ci circonda è soporifera e anestetizzante; non ci spinge affatto a vivere le nostre vite in maniera più consapevole e profonda, direi piuttosto il contrario.
La maggior parte dei media di intrattenimento puntano a “scollegarci” dalle nostre vite per un’ora o un’ora e mezza. È solo per “intrattenerci”, non deve necessariamente dirci qualcosa o sollevare dei quesiti morali, ma penso che l’Arte – o per lo meno mi piace pensarlo per i miei lavori – non può evitare questo tipo di argomenti. Deve provocare, stimolare una qualche riflessione, altrimenti non c’è davvero ragione perché esista. Se non lo fa, probabilmente ti rassicura su qualcosa e credo che questo sia negativo.
Non mi piace l’idea che l’Arte sia rassicurante, dovrebbe provocare delle domande, non dirti “sì, è tutto bellissimo, va tutto bene.”
Sì c’è un posto per l’Arte di questo tipo, ma non è quella che preferisco, e non è certo quella che mi piace fare. Mi piace l’idea del confronto di idee e spingere il lettore verso nuove esperienze. Credo che questo sia il compito di uno scrittore o di un’artista, o per lo meno, questa è la mia opinione in merito.
Mi è piaciuta davvero la tua rivista, Dodgem Logic. Lo dico nel senso buono del termine, mi è sembrata davvero “old-fashion”, fatta come ai vecchi tempi. La direzione era dettata dagli interessi di una sola persona. Che cosa ti ha insegnato un’esperienza simile, oltre al fatto che è difficile pagare in modo equo le persone coinvolte nel progetto e fare le cose nel modo giusto?
AM: Mi sono divertito tantissimo a fare Dodgem Logic, e sì, è stato come tornare a quel genere di energia e allo spirito delle riviste underground che apprezzavo tantissimo durante i miei anni formativi. Allo stesso tempo non volevamo che fosse un esercizio di psichedelica nostalgia per i tempi che furono. Volevamo che fosse una rivista diversa da come erano Oz e pubblicazioni analoghe. Per quanto le trovassi meravigliose avevo 15 anni. Noi volevamo fare qualcosa che avesse attinenza con i tempi in cui stavamo vivendo, magari con lo stesso spirito e gli stessi obiettivi dell’underground ma in un contesto nuovo e credo che ci siamo riusciti. Se si guarda la rivista, c’erano molti più contenuti di quelli che di solito si trovavano in quelle vecchie pubblicazioni underground.
Per quanto le adorassi, erano piene di pagine di confusi e torbidi collage presi da quotidiani scandalistici, con titoli sensazionalistici affiancati ad immagini tratte da riviste porno. C’erano pochi contenuti. Quando c’era sostanza, a volte, era qualcosa di davvero valido. Ma non ce n’era molta.
Nel caso di Dodgem Logic mi è piaciuto soprattutto il fatto che avessimo una politica, probabilmente una politica suicida, di non includere inserzioni pubblicitarie a pagamento. Mi piaceva l’idea di prendere delle persone, in molti casi autori di primo piano nel loro campo specifico, e “mischiarle” con persone della zona che avevamo conosciuto da poco, che avevano una passione o un talento.
C’è forse qualche alto e basso in Dodgem Logic. Sì, l’intento non era quello di fare una rivista patinata del tutto professionale, nel senso in cui ci si aspetta che lo sia una rivista patinata professionale. Volevamo un qualcosa che avesse le sue imperfezioni e che sarebbe quasi certamente incappata in numerosi fallimenti, perché bisogna essere preparati a questi rischi se si sta facendo qualcosa di avventuroso.
Ho amato Dodgem Logic, penso che nella rivista ci siano stati dei momenti incredibili: il ricordo del Blitz scritto da Michael Moorcock; il meraviglioso primo capitolo dell’autobiografia di Tom Pickard; il pezzo di Iain Sinclair, le fotografie, i fumetti, lavorare di nuovo con artisti come Savage Pencil, fantastico; i contributi dei vari autori comici… Era davvero un buon mix e nonostante la rivista abbia perso una marea di soldi, non cambierei nulla. Sono davvero felice d’averla fatta.
Ma non abbiamo ancora finito. La versione sul Web è ancora attiva e poi, se ci sarà un modo per ritornare in stampa… stiamo valutando varie opzioni. Credo che Robin Ince stia organizzando un paio di importanti eventi benefici per raccogliere fondi.
È davvero bravo in queste cose.
AM: Sì, Robin è bravissimo in questo. Non so davvero dove trovi il tempo per organizzare tutte queste cose e al contempo portare avanti la sua carriera di scrittore e comico.
Copertina di Dodgem Logic N. 3, realizzata da Moore |
AM: Sì, è instancabile. Mi diceva di un possibile coinvolgimento dei vari comici che hanno contribuito a Dodgem Logic. Stavamo pensando di fare due serate, probabilmente una con un po’ di comici e l’altra con un po’ di band che si sono offerte volontarie. Terremo informati tutti sugli sviluppi.
Per cui direi che Dodgem Logic non è ancora finita. E mi sembra di capire che, dove è arrivata, sia piaciuta. È stato soprattutto un problema economico. Vendevamo circa 15mila copie ma la tiratura era di 30mila, una tiratura decente per una rivista. Se avessimo inserito della pubblicità o se il costo per realizzarla fosse stato leggermente inferiore, o se il prezzo di copertina fosse stato leggermente più basso, probabilmente avremmo potuto andare avanti, ma non volevamo fare in quel modo.
Così stiamo pensandoci su per vedere se ci sia un modo per ritornare in stampa, perché è questo il mezzo a cui sono più legato.
Visto che stai scrivendo un romanzo gigantesco immagino che nutra un grande amore per i libri come oggetti.
AM: Non è una cosa patologica. Accetto il fatto che le cose cambiano e che il futuro della lettura potrebbe avere la forma di un Kindle o di un iPad, ma in un certo senso reputo che il libro sia “perfettamente adattato”. È come gli squali; gli squali non si sono evoluti per milioni di anni perché non ne avevano bisogno. Sono davvero perfetti come squali e credo che lo stesso valga per i libri.
Ma potrei sbagliarmi e la situazione potrebbe cambiare e i libri potrebbero sparire. Almeno avrò ancora i miei e sono sicuro che mi adatterei ma nutro dei dubbi che questi “oggetti base” svaniranno solo perché avremmo una nuova alternativa. Il cinema esiste da anni ma il teatro c’è ancora. Dal punto di vista emotivo, ovviamente, mi piace l’odore della carta. Adoro l’odore della carta al mattino, è come l’odore della vittoria.
Uno dei più grandi piaceri per me è stato l’odore fantastico della carta di Lost Girls. Non mi sono quasi preoccupato di leggere il libro. Ero semplicemente ammaliato dall’odore della carta. Ma sai, probabilmente è solo un feticismo del tutto personale.
È stato pubblicato in cofanetto, vero? Si prova una certa soddisfazione quando si tira fuori un libro da un cofanetto. La sensazione è che sia una sorta di evento quando selezioni quel volume.
AM: Per Lost Girls è stata tutta un’idea di Melinda ma io ero completamente d’accordo con lei. Lei aveva la sensazione che fosse importante renderlo un oggetto il più bello possibile in modo da fugare la cattiva nomea che generalmente, e direi correttamente, circonda la parola “pornografia”.
Forse probabilmente era un po’ come “indorare la pillola”, ma era una confezione particolarmente bella. Il messaggio che veicolava era: “Noi autori prendiamo la cosa molto seriamente.” Era una modo per dire al lettore che non era un’operazione da quattro soldi, non era quella la visione degli autori. E credo che, per noi, con Lost Girlss, quest’approccio abbia funzionato piuttosto bene.
Lost Girls |
AM: È stata una sensazione davvero strana la prima volta, con il mio primo romanzo, La voce del fuoco. Ho impiegato cinque anni a scriverlo e l’ho trovata una esperienza molto solitaria perché per la prima volta stavo scrivendo un qualcosa di lungo e impegnativo senza poter scambiare idee con un collaboratore e senza che qualcun altro, oltre me, fosse interessato a quello che facevo.
Suppongo che con Jerusalem stia portando avanti qualcosa di ancor più impegnativo ma, rispetto a quando ho scritto La voce del fuoco, sono cresciuto come scrittore. Essendo consapevole di quello che mi aspettava, credo di stare gestendo Jerusalem davvero bene. Mi sento davvero a mio agio. È come un lungo viaggio senza aver nessuno che ti faccia compagnia. Ma non so se è semplicemente il mio modo di pensare che si è adattato per un progetto di maggiore portata.
Non è un libro difficile come lo è stato La voce del fuoco. Con La voce del fuoco non sapevo neppure se sarei riuscito a scrivere un romanzo, non sapevo neppure se sarei riuscito a finirlo. Non sapevo neppure se avrebbe funzionato. Era una forma di racconto su cui non avevo mai lavorato in precedenza. Perciò avevo tutte quelle insicurezze che uno ha quando lavora a qualcosa che non conosce bene. Nel mio curriculum ho solo un romanzo di genere “non grafico” e per lettori “adulti”, ma ho un bel po’ di esperienza come scrittore. Credo però che non scriverò mai più qualcosa di così lungo.
Come festeggerai quando finirai un romanzo da 750 mila parole?
AM: Penso che mi riposerò un po’.
Non lo riprenderai in mano e inizierai a rileggerlo dall’inizio, vero?
AM: Oh, beh, dovrò farlo. Quando avrò scritto l’ultima parola, dovrò tornare indietro e ricontrollare tutto. Ma non ci vorrà molto. Posso fare un capitolo al giorno, per cui ci vorrà un mesetto. Sono 35 capitoli. Coinvolgerò anche il mio amico Steve Moore in questo perché è la sola persona, vagamente simile alla figura di un editor, che lascerei avvicinare al mio libro.
Qualsiasi editor con un po’ di sale in zucca mi direbbe immediatamente di tagliare due terzi del libro. E non lo farei mai. Dubito che Herman Melville avesse un editor e se lo avesse avuto quell’editor gli avrebbe detto di tagliare tutta quella roba noiosa sulla caccia alle balene. Una roba tipo: “Vai direttamente alla parte sull’inseguimento, Herman.”
Perciò, Steve lo leggerà e verificherà gli eventi che cito nel romanzo. Ho cercato di assicurarmi che tutti i riferimenti storici fossero il più possibile accurati. Faccio diverse affermazioni “assurde” nel corso del libro perciò penso sia importante che i fatti reali siano completamente fondati e del tutto accurati.
Per rispondere alla tua precedente domanda, probabilmente porterò Melinda a mangiare in un ristorante cinese e ci stracceremo di sakè. Ho smesso di bere nel 2000 perché mi ero stancato. Mi sono reso conto che, quando avevo 14 anni, facevo finta che mi piacesse il gusto della birra – perché pensavo mi facesse sembrare più “uomo” – al posto del succo di ciliegia, che è stato il mio primo amore, ma non potevo certo dirlo a quell’età. Così ho smesso, causa noia, di bere birra intorno al 2000. Ma adoro il sakè. È sorprendente come ti prenda.
Sì, specialmente quando è caldo. Ha un gusto così avvolgente.
AM: Sì. Non ricordo per quale motivo ma ne parlavo con alcuni degli scienziati durante Uncaged Monkeys. E mi chiedevo: “Che cosa ha di speciale il sakè? Perché fa quell’effetto? Che differenza fa riscaldarlo?”
Moore durante una recente intervista |
AM: No, l’unico piano che avevo si basava sull’improvvisare. Quando ho iniziato non avevo la minima idea che sarei stato in grado di vendere a qualcuno un mio lavoro. Quando ho avuto l’incarico come disegnatore per il giornale musicale Sound, pensavo che sarebbe durato un paio di mesi prima che si rendessero conto che non avevo alcun talento e che sarebbe arrivato qualcuno a riprendersi tutto indietro.
Ma pensavo che almeno avrei potuto dire che ero durato qualche mese, vivendo della mia Arte, e questa sarebbe stato qualcosa di cui andare fieri. Così, quando mi sono reso conto che non sarebbe arrivato nessuno a riprendersi tutto, ho iniziato a pensare: “beh, la tua vita e questa situazione sono appese ad un filo, come puoi migliorare le cose?” Per cui direi che, sì, ho fatto diverse pessime valutazioni strategiche ma, no, il mio unico piano era quello di vedere se potevo riuscire a guadagnarmi da vivere facendo qualcosa che mi piaceva.
Quando mi sono reso conto che potevo farlo, ho adattato il mio piano. Potevo guadagnarmi da vivere facendo qualcosa che mi piaceva e che potesse anche evolvere toccando argomenti che mi interessavano davvero? Le mie ambizioni sono via via cresciute ed è questo il motivo per cui sono finito a scrivere un libro da 750 mila parole.
Mi preoccupa il fatto che dopo aver scritto il tuo romanzo successivo, penserai: “Beh è andata bene. Anzi, in realtà, mi sono davvero divertito.”
AM: Il fatto è che La voce del fuoco era lungo 300 pagine ed era tutto incentrato sulla contea del Northamptonshire. Questo che sto scrivendo, che alla fine sarà probabilmente di 750 mila parole, parla di circa cinque o sei isolati. Circa mezzo miglio quadrato.
Per cui il prossimo sarà lungo qualche milione di parole e sarà incentrato solo su questa parte del salotto di casa mia. Credo che dovrei metterci un freno.
Vai a votare?
AM: No, non voto. Da tempo, sono un anarchico… Ho votato una sola volta. Votai per Jim Callaghan perché un mio amico, molto più attivo politicamente di me, mi disse che Edward Heath era un fascista e che non votare equivaleva a votare per Heath. Votare per Heath era come votare per Hitler.
Al tempo, non sapevo molte cose. Edward Heath era solo un Tory vecchio stampo ma allora non sapevamo che ci sarebbero stati dei Tory diversi. Per cui Heath sembrava davvero un pessimo elemento, così votai per Jim Callaghan. Callaghan vinse e subito dopo iniziò a portare i missili Cruise americani nelle basi inglesi e impose la peggiore legge anti-immigrazione che abbia mai visto. E mi dissi: “è colpa tua.”
Presi la cosa seriamente. Non mi piace votare perché non credo che sia democrazia. Democrazia, per come la vedo io, è demos, ossia la gente comanda. Non dice nulla sul fatto che i rappresentanti eletti debbano comandare. In Dogmen Logic parlo di un’opzione che è stata usata e che mi sembra preferibile, ossia la via Ateniese.
Sì, venivi convocato.
AM: Venivi convocato tramite estrazione a caso. Se c’era una decisione d’importanza nazionale da prendere, una giuria o un parlamento veniva convocato mediante un’estrazione. Ascoltavano le argomentazioni delle parti coinvolte, votavano e poi la giuria veniva sciolta. Non avrebbe alcun senso votare dei privilegi a favore dei membri del Parlamento, perché tu non ne faresti parte. Sarebbe invece tuo interesse votare per qualcosa che abbia importanza per la comunità perché è lì che ritornerai.
Non sto dicendo che non sia un’idea priva di punti deboli ma forse bisognerebbe pensarci, perché credo che questa sia, per lo meno, una vera simulazione di democrazia.
Sì, così una parte marginale di elettorato gestirebbe gli equilibri del potere.
AM: Esatto. Quando, negli anni ’80, collaboravo con il Green Party su questioni di politica locale, si parlava dell’idea di rappresentanza proporzionale, ossia se il Green Party avesse ottenuto l’1% dei voti, avrebbe avuto l’1% di membri in Parlamento.
Se il British National Party o il National Front prendevano l’1% dei voti anche loro avrebbero avuto l’1% in Parlamento ma potevo accettarlo. Mi sembrava un’idea che, per lo meno, sarebbe stata più corretta.
Ma questa cosa del voto alternativo non ha nulla a che fare con la rappresentanza proporzionale [quest’intervista è stata raccolta prima del referendum britannico sul voto alternativo tenutosi il 5 Maggio 2011, N.d.T]. È solo un altro modo per disporre le sedie a sdraio sul Titanic. Abbiamo bisogno di qualcosa di molto più drastico. Abbiamo bisogno di un’alternativa all’attuale sistema elettorale, ma quella non lo è.
Per cui, no, non voto. Credo in azioni politiche dirette. Ad esempio, alcuni miei amici del Galles (lì ho comprato una fattoria in rovina, circa 15 anni fa)… uno di loro è stato in Romania e ha visto un orfanatrofio gestito da volontari che cercavano di aiutare i ragazzi che avevano salvato dagli orfanatrofi pubblici, posti davvero terribili in cui succedevano cose che non si possono neppure immaginare.
E questo tizio, un ex-nazionale gallese di rugby, con una faccia come se qualcuno gli avesse spento il fuoco da dosso a colpi di pala… tutto quello che ti aspetti di vedere da un grande e grosso, eroico, giocatore professionista di rugby. Si trovava in Romania per lavoro, vide quell’orrore e non poté continuare a vivere senza fare qualcosa. Tornò a casa e convinse un gruppo di ubriaconi disoccupati, affetti da cirrosi, ad andare lì in Romania con un paio di camion e materiali che aveva convinto i suoi colleghi d’affari a donare, per senso di colpa. E così costruirono un orfanatrofio e un ospizio in due settimane, con tanto di elettricità e acqua.
Quello che sto cercando dire è che se guardando il mondo vedi qualcosa di insopportabile o con cui non sei d’accordo, non votare per qualcuno che ti dice che sistemeranno loro le cose, perché non succederà. Stanno solo cercando di avere il tuo voto. Diranno qualsiasi cosa per ottenere il tuo voto.
Non avranno nessun incentivo una volta che l’avranno ottenuto.
Se vuoi che qualcosa venga fatto, allora, come era solita dire mia mamma, fallo tu in prima persona. Questo è in parte il messaggio di Dodgem Logic. Credo che la politica del 21esimo secolo sia il coinvolgimento diretto col mondo in cui viviamo. Piuttosto che abdicare le nostre responsabilità nell’urna elettorale ad un branco di pagliacci a cui evidentemente non importa nulla.
Brian Cox |
AM: Sì, ma non preoccuparti. Fa tutti parte di quello che ipotizzo in Jerusalem. Prima di diventare padre, alla fine degli anni ’70, inizio degli ’80, ho raggiunto un punto in cui non ero più preoccupato per me. Non ero preoccupato per la mia morte, non ero preoccupato per le brutte cose che potevano succedermi.
E poi ho avuto dei figli e questo apre tutto un nuovo vortice di paure. È stato uno dei motivi per cui ho aderito così entusiasticamente al Green Party, perché pensavo che se ci fosse stata una guerra nucleare o un collasso ambientale sarebbe stata la fine della vita su questo pianeta o la fine dell’umanità.
E se fosse accaduto, ogni lotta dell’umanità, ogni traguardo, ogni nascita, tutto fino a tornare indietro all’alba della nostra specie, sarebbe stato vano. Nessuno avrebbe mai saputo che siamo stati qui. E ho pensato: è una cosa orribile.
Il passato verrebbe cancellato, tutto quello che mia madre e sua madre, e cosi via, avevano fatto, tutto sarebbe stato annientato in un’assurdità nucleare. E poi ho pensato, perché sono un depresso davvero ben informato, che anche se non fosse successo e se avessimo trovato il modo di sopravvivere alla minaccia di una guerra nucleare, ai problemi dell’ambiente, alla fine, tempo qualche altro miliardo di anni, e la galassia di Andromeda sarebbe entrata in collisione con la nostra. E se anche questo non accadesse, il nostro Sole si trasformerà in una gigante rossa mangiando tutti gli altri pianeti… così, se allora non ci saremo trasferiti da qualche altra parte, quella sarà la fine.
E in quel modo, anche così sarebbe come se l’umanità non fosse mai esistita. Inoltre, se anche sopravvivessimo a questo, ad esempio, viaggiando sull’Enterprise e trovassimo un sistema solare più ospitale, l’universo finirà. Diamogli altri sei miliardi di anni, non ne sono sicuro. Ma alla fine l’universo si arrenderà all’entropia, come dimostrato in maniera così chiara dal Professor Brian Cox con i suoi castelli di sabbia.
Stavo discutendo con Brian, è così che lo chiamo, e gli ho detto: “Brian, la tua dimostrazione sui principi dell’entropia è stata chiarissima ma vorrei chiederti come si concilia con la tua controversa ipotesi che Things Can Only Get Better? [Le cose possono solo migliorare. Riferimento ad una canzone, numero 1 nelle classifiche inglesi nel 1994, del gruppo inglese D:Ream in cui Cox militava come tastierista prima di completare il suo percorso di fisico e diventare uno dei divulgatori scientifici più noti del Regno Unito, N.d.T]
Lui ha risposto: “Beh, quella è una canzone pop, non è scientificamente accurata.” Così ho pensato, che alla fine, davvero, tutto finirà e nessuno saprà persino che questo universo è mai esistito.
La negazione di un simile destino davvero mi fa scoppiare la testa. Tuttavia, con la mia ipotesi di cui parlo in Jerusalem, si supera tutto questo. Significa che nulla è mai andato perduto, neppure un momento è stato perduto. È tutto lì ancora adesso e quando raggiungeremo la fine dell’universo, sarà come raggiungere la fine della strada, la strada sarà ancora lì, l’universo sarà ancora lì. Lo spazio-tempo sarà ancora lì.
Per cui, no, non siamo spacciati, a meno che la nostra vita non sia stata particolarmente cattiva o priva di interesse. In quel caso sì, saremo spacciati, perché credo che sarà tutto quello che avremo, per sempre.
Per cui “cercate di rilassarvi” è il mio messaggio. “Cercate di divertivi” perché questa vita, credo, l’avrete per sempre.
È un messaggio piuttosto pessimista e, al contempo, piuttosto ottimista.
AM: Uno dei vantaggi di questa teoria è che contiene tutto il Paradiso e tutto l’Inferno che neppure il più fanatico fondamentalista religioso americano potrebbe desiderare in una religione. Tutti i migliori momenti della tua vita: per sempre. E questo è… il Paradiso. E tutti i peggiori momenti della tua vita: per sempre. E questo è l’Inferno o il Purgatorio, per l’eternità.
Ma tutto insieme, qui e ora, in questo mondo. Tutto il Paradiso e l’Inferno che potremmo mai chiedere. Questa è la mia ipotesi. Potrà non essere la più consolatoria delle ipotesi, ma… è piuttosto “giusta”.
È certamente più giusta che essere giudicati da una qualche remota autorità spirituale con cui potresti o meno essere d’accordo. Con questa ipotesi sarebbe tutto colpa nostra e questo lo posso accettare.
Penso sia perfettamente ragionevole.
Intervista di Helen Lewis-Hasteley, pubblicata su New Statesman.
Tradotta con il permesso dell’autrice.
strepitoso.
RispondiEliminaYEEEEAH!
RispondiElimina@Akab
RispondiEliminaGrazie della visita. Eh sì il Bardo dice sempre cose "interessanti" :)
@senility
Grazie! :)
Grazie per averci donato questa perla.
RispondiElimina(c'è un refuso: "E non credo che così facendo si faccia loro un disservizio al lettore.")
@Lys
RispondiEliminaGrazie per la visita. E per la segnalazione del refuso: corretto ora! :) Trattandosi di un vero fiume di parole qualche refusino ci sta (e poi ho lavorato senza "supervisione", come Alan! :D)
Ma
RispondiEliminagni
fi
co.
ringrazio anch'io per aver dato la possibilità di leggere quest'intervista.
RispondiEliminastupisce come Moore riesca sempre ad essere così interessante .
non si ascolterà il suono della sua voce ma, ogni volta, è come se lo sentissi.
sp
@Lorenzo
RispondiEliminaGrazie!
@sTUDIOpAZZIA
Ti ringrazio per la visita. E per le parole. :) Da parte mia ringrazio ancora l'autrice dell'intervista e... Moore, per le sue risposte sempre degne di lettura (spero anche nella mia traduzione)! :)
Diavolo di un Alan Moore! Con le sue storie ha portato i fumetti a volare in alto. Un grazie a smokyman per la diffusione del verbo :)
RispondiEliminaGrazie davvero per avermi permesso di godere delle parole di Moore, parole che trovo sempre, sempre pregne di significato, interessanti e ogni volta che le leggo mi cambiano un po' :)
RispondiEliminaOrlando
Non so che altro aggiungere ormai! :D
RispondiEliminaGrazias smoky!
@Giovanni, Fumetti di Carta, N3B
RispondiEliminaGrazie per la visita e i commenti. A volte sui blog ci si sente soli... :)
Gran bell'intervista, molto interessante. Grazie per averla postata.
RispondiEliminaMoore è un grande pensatore. Ogni volta che leggo una sua opera o intervista non posso fare a meno di spegnere la tv e pensare. Diavolo di un mago!
RispondiEliminaGiorgio
Grazie per la condivisione, mi piacerebbe conoscere meglio l'inglese per nutrirmi ancora più approfonditamente delle mappe che Alan Moore lascia nel tempo... come Unearthing ad esempio. Persi ci siano speranze di vederlo tradotto?
RispondiEliminaGrazie ancora di cuore.
@Simone Figus
RispondiEliminaGrazie a te per la visita!
@Giorgio
Moore ha sempre qualcosa d'interessante da dire. Senza neppure prendersi poi molto sul serio. Con ironia, anche.
@bolidesottomarino
Grazie a te! Su Unearthing non saprei dirti. Ma, mai dire mai, no? :)