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giovedì 25 marzo 2021

Alan Moore 2020: Intervista - Prima Parte

Alan Moore visto da David Hichcock
Lo scorso anno, come forse saprete,  ho curato la traduzione di un'intervista ad Alan Moore per il n. 116 di Scuola di Fumetto.
L'intervista, realizzata dal giornalista Peter Moerenhout era apparsa nel giugno 2020 sulla rivista belga Stripgids n.7. Entrambi i testi pubblicati, sia sul magazine belga che su quello nostrano, presentano una versione ridotta del testo inglese originale (domande di Peter & risposte di Moore), per comprensibili ragioni di foliazione. Per Scuola di Fumetto ho lavorato a partire dal testo integrale in inglese e su questo ho preso le decisioni di riduzione, anche in accordo con Peter.

A seguire, trovate quindi la Prima Parte della traduzione dell'intervista INTEGRALE. Un grazie a Peter per il permesso alla pubblicazione e per il suo supporto.
Le 12 domande sono state inviate da Moerenhout a fine 2019 e le risposte di Moore sono state ricevute a inizio gennaio 2020.  
 
Nota 1. Su Scuola di Fumetto è stato erroneamente indicato che Stripgids è una rivista olandese: si tratta di una pubblicazione belga. Mea culpa.
Nota 2. Tutti i ritratti mooriani a corredo di quest'articolo fanno parte della mia fumosa collezione: colgo ancora l'occasione per ringraziare tutti gli artisti che negli anni hanno contribuito a questa raccolta. Potete vedere la gallery, completa o quasi, QUI e QUI.
 
Un grazie agli amici Omar Martini, Angelo Secci e Giuseppe Pili per il supporto e per la supervisione.
Buona lettura!
 
La Seconda Parte dell'intervista è leggibile QUI.
Alan Moore visto da Giuseppe Palumbo
Alan Moore: Caro Peter,
grazie per delle domande davvero ben formulate, le risposte nel seguito:

Peter Moerenhout: 1. È uscito La Lega degli Straordinari Gentlemen: La Tempesta, il tuo ultimo fumetto. Circa tre anni fa avevi annunciato il ritiro dalle scene. Mi sono imbattuto in un passaggio di una tua intervista apparsa, a suo tempo, sul Guardian:

«Ho fatto tutto quello che potevo. Penso che se continuassi a scrivere per i comics, inevitabilmente le idee ne soffrirebbero, inevitabilmente i lettori inizierebbero a percepirmi come superato e penso che sia io che loro ci meritiamo, probabilmente, di meglio.»

Puoi dirci di più su questo tuo sentimento? Ovviamente hai ancora delle idee che intendi realizzare in altri media. Che cosa ti attrae nella prosa, nella televisione o nel cinema? In cosa sono differenti o più appaganti? Perché le tue nuove idee sono più adatte ad essere realizzate non a fumetti?

Alan Moore: Se il mondo dei fumetti di lingua inglese fosse stato diverso, dubito che sarei mai rimasto a corto di idee o che mi sarebbe mancato l’entusiasmo per realizzarle. Quando ho iniziato, i comics erano un settore ignorato che produceva albi economici in grande tiratura pensati prevalentemente per i bambini della classe operaia, ma con un numero crescente di teenager inclusi tra i lettori di riferimento. Questo, per me, li rendeva il mezzo ideale per una democratica diffusione di idee originali, radicali e, si spera, utili indirizzate a un vasto pubblico di giovani meno abbienti, in un’età in cui quelle erano esattamente le idee che cercavano.
In più c’erano le mie ambizioni personali riguardo il fumetto in sé: i comics erano, e lo sono ancora, un’espressione artistica relativamente giovane in cui, nonostante i grandi passi avanti fatti da autori come Harvey Kurtzman o Will Eisner, i territori inesplorati sono praticamente infiniti. Applicando, forse, un approccio più sofisticato o una maggiore sensibilità letteraria, sono riuscito, nel corso di circa quarant’anni, a proporre diversi avanzamenti tecnici che hanno avuto un grande successo e se mi fossi trovato più a mio agio in questo ambiente, ne avrei proposto con profitto qualche altro.
È accaduto che il mondo dei comics ha subito dei profondi cambiamenti dagli anni ‘80 in avanti, in parte come risultato dei progressi nel medium che io stesso ho ottenuto. Ho sperato che un approccio innovativo nel modo di raccontare avrebbe generato un nuovo rinascimento dei comics, dal punto di vista tecnico e creativo, ma non è quello che è successo. Invece, probabilmente perché quelle innovazioni erano troppo difficili da riprodurre, soltanto alcuni elementi superficiali dei miei lavori o del mio stile sono stati sfruttati col risultato che diversi personaggi a fumetti, che erano stati perfetti per un pubblico di bambini, sono stati improvvisamente trasformati per circa vent’anni in qualcosa di “oscuro”, “dark” o “distopico”.
Sul finire degli anni '80, in seguito al riscontro di Watchmen, la morente industria dei comics vide l'opportunità per farsi un restyling e rivendersi a un nuovo e più facoltoso pubblico. Titoli roboanti sui giornali ci rassicurarono che “Bam! Sock! Pow! I fumetti sono cresciuti!” Col senno di poi, comunque, mi sembra che sia più plausibile che piuttosto che esserci stata una crescita, i fumetti abbiano semplicemente incrociato lo sviluppo emotivo dei loro lettori che avanzava nell'altro senso.
Utilizzando Watchmen come una giustificazione, i comics sono diventati più violenti e sessualmente espliciti, non più diretti né a un pubblico di bambini né di teenager ma, specificatamente, ad adulti perennemente adolescenti che via via sono diventati, nel corso degli anni, predominanti.
Mentre io e il magnifico Kevin O'Neill stavamo lavorando a La Tempesta, il più importante e più venduto evento dei comics era un albo di Batman in cui il bat-pene del personaggio era appena visibile in qualche vignetta, facendoci capire che i lettori attuali non sono particolarmente interessati alle storie.
Il pubblico dei comics contemporanei, la cui età media è sui quarant’anni, non sta soltanto diminuendo ma letteralmente… morendo.
Le raccolte di mezza dozzina di normalissimi albi di Batman, pubblicizzati come “graphic novel”, hanno dato inizio alla gentrificazione dei comics, originariamente destinati ai figli della classe operaia: il graphic novel, in questa analogia, è l’equivalente di un loft monolocale. I fumetti sono stati sottratti dalla disponibilità economica del loro pubblico originario per cui attualmente il loro acquisto è alla portata soltanto del ceto medio.
(Penso che Superman, creato da Joe Shuster e Jerry Siegel, due giovani di Cleveland provenienti dalla classe operaia, come un immigrato extra-terrestre cresciuto nella povera America rurale, sia stato il primo e l'ultimo supereroe proletario, visto che i suoi successori sono stati dottori, avvocati, scienziati e miliardari insolitamente filantropi.)
Come risultato, abbiamo un settore dei comics che sta collassando, totalmente dipendente dalla sua utilità come terreno di coltura da cui far nascere redditizi franchise cinematografici e televisivi, in cui il termine “comics” è intercambiabile con “film di supereroi”: quello che avevo creduto essere un nuovo mezzo artistico con straordinarie potenzialità pare un nostalgico appagamento per appassionati abbastanza danarosi.
Uscendo fuori dai confini, al confronto irrilevanti, del mondo dei comics, credo che ci siano dei problemi più generali e più seri da considerare, sia su scala nazionale che su quella globale. Mi sembra che l’ascesa del concetto americano di supereroe (molto probabilmente derivato dalla stessa sensibilità dietro a Nascita di una nazione di D.W. Griffith) non ha soltanto segnato il mondo del cinema ma ha corroborato un certo infantilismo che, nel mondo reale, spesso sfocia in una sorta di fascismo. Nel 2016, l’anno in cui gli inglesi hanno votato per uscire dall’Unione Europea mentre gli americani eleggevano un mandarancio nazionalsocialista, nella classifica dei primi dodici maggiori incassi sei erano film di supereroi. Non sto suggerendo che ci sia una relazione causale tra questi due fatti ma piuttosto che la semplicistica narrazione dei supereroi funziona molto bene per l’attuale populismo di estrema destra.
I sostenitori di Donald Trump, già di per sé cartoonesco, lo chiamano 'The Donald' come se quella fosse la sua identità segreta da combattente contro il crimine. E la ragione per cui Alexandria Ocasio Cortez ha risposto su Internet a quei troll, resi spavaldi dall'anonimato, con una citazione dall'intento satirico di Rorschach, tratta da Watchmen, è che era abbastanza sicura che ognuno di loro, essendo dei fan dei comics, avrebbe colto il riferimento.
E questo, ovviamente, senza aggiungere che l’industria anglo-americana dei comics è sempre stata e sempre sarà una cleptocrazia, un sistema che si regge sullo sfruttamento di proprietà intellettuali sistematicamente rubate ai suoi autori di maggior talento, i vari Siegel, Shuster, Kirby e Ditko. Il fatto che fossero tutti artisti che provenivano dalla classe operaia e forse non avevano ricevuto la giusta educazione per capire appieno i contratti che gli venivano sottoposti deve essere, probabilmente, una coincidenza.
Alla luce di quanto esposto – unitamente all'articolo del Guardian che è stato un tale lacrimoso necrologio per la fanciullezza da fan dei supereroi dello scrittore tanto che i miei amici e parenti sono stati inondati da domande sul fatto se fossi davvero morto - credo che sia comprensibile perché non intenda più spendere le mie energie in un settore che mi pare sempre più allo sbando, senza alcuna genuina finalità creativa o sociale. Ho rinnegato circa il novanta per cento dei miei fumetti, non ne ho copie a casa e, in tutta sincerità, non li voglio più vedere. Ci tengo a precisare che la mia disaffezione è rivolta soltanto all’industria dei comics, e che il fumetto come mezzo espressivo è ancora una cornucopia di meraviglie da scoprire e rimane puro e senza colpa. Per cui, se in futuro ci sarà una valida causa e fare un fumetto mi sembrerà il migliore approccio, come è successo di recente per la storia breve che io e mia moglie Melinda Gebbie abbiamo realizzato per l’antologico dedicato alle vittime della Grenfell Tower, non esiterò a utilizzarlo.

Riguardo il mio interesse verso altri media, quello che li rende differenti o più appaganti, ed è anche il motivo per cui penso che siano più adatti per i miei attuali progetti, è che semplicemente non si tratta di fumetti e per questo posso lavorare con il massimo entusiasmo e creatività. Naturalmente questa non è la risposta completa: durante tutta la mia riconoscibile carriera fumettistica ho anche perseguito la tradizione di lavorare, piuttosto regolarmente, in altri media come romanziere, poeta, critico, saggista; come cantante, scrittore di canzoni e spoken word performer; come audace ma finanziariamente sprovveduto editore di riviste underground e come musicista. Riconosco che tutte queste forme di espressione hanno qualità e peculiarità specifiche e, come artista, accetto la splendida sfida che mi pongo per identificare queste possibilità e utilizzarle in modi originali e stimolanti.
Questo è l’approccio alla base delle mie innovazioni nel campo dei comics, alla base di La voce del fuoco e Jerusalem e spero anche alla base delle mie esplorazioni nel mondo del cinema. Alla mia età sento di avere forse dato troppo della mia vita a un campo che non è diventato affatto quello che avevo immaginato o desiderato mentre, dalla mia attuale prospettiva, questi altri media da me poco esplorati o del tutto inesplorati mi paiono invitanti e pieni di possibilità, con l’aspetto e il fascino di alture illuminate dal sole. 
Alan Moore visto da Simone Pace
2. Il seguito di Show Pieces è il film The Show. Puoi rivelarmi qualcosa? Di cosa parla? Quali sono le tematiche? A che punto si trova il progetto?

Riguardo la storia, i cinque cortometraggi che compongono il ciclo di Show Pieces si svolgono tutti nella notte di venerdì 2 novembre 2018 in una città, recentemente decaduta, delle Midlands. The Show riprende il racconto dal mattino seguente, sabato 3 novembre, con l’arrivo di un uomo con molti nomi, professioni dichiarate e passaporti. Sta cercando qualcuno, che troverà, e un gioiello dei Rosacroce, che non riuscirà a trovare. Il film racconta l’indagine dell’uomo su questa strana città e i suoi abitanti, insieme al suo crescente legame con il sinistro club che abbiamo già visto in Show Pieces, gestito da due ex comici radiofonici e televisivi, dove tutto sembra una eterna, terribile serata del 1973.
Il tema principale sono i sogni e la loro manipolazione, con l’ipotesi che il Tempo del Sogno aborigeno, quel sacro spazio dell’immaginazione in cui la nostra cultura conservava tutte le sue divinità, le meraviglie e i mostri, e in cui conduceva la sua vita fantastica o spirituale, sia stato rimpiazzato, nella nostra era moderna, da uno spazio mentale generato dai pervasivi media dell’intrattenimento. Questo Tempo del Sogno scandito dagli schermi dei nostri dispositivi è ancora popolato da mostri, leggende e da perenni morti viventi (Marilyn Monroe, Elvis, Jimmy Savile) e domina la nostra vita interiore ancor più in profondità e con maggiore efficienza di prima.
Se c’è una fondamentale lezione che dobbiamo imparare dalla nostra attuale epoca caotica e precaria è che se interferiamo con l’immaginario del territorio dei sogni della società allora interferiamo con la realtà, e che coloro che danno forma ai nostri sogni (che si tratti di Steve Bannon, Dominic Cummings o di Rupert Murdoch) danno forma anche al nostro mondo. Questo è il tema centrale di The Show, introdotto in modo allusivo, e che verrà sviluppato nell’imminente, si spera, serie televisiva, anch’essa intitolata, per pigrizia, The Show, di cui il film è sostanzialmente un episodio pilota piuttosto stravagante. Da molti punti di vista, si tratta di intrattenimento che… parla di intrattenimento.
Il film è ultimato, incluso il lavoro di post-produzione, e pensiamo sia riuscito benissimo sia dal punto di vista visivo che sonoro, tanto che nessuno crederebbe che sia costato soltanto novecentomila sterline. Io e Mitch [Jenkins, il regista, fotografo di fama internazionale. N.d.T.] deteniamo il totale controllo della nostra proprietà intellettuale e non c’è stata alcuna interferenza esterna durante l’intero processo: a parte alcuni tagli che abbiamo fatto per ragioni di budget, il film è esattamente come volevamo che fosse. Presto dovremmo annunciare una data per la première con una distribuzione nelle sale a seguire ma al momento, mi spiace, posso solo dire che tutto avverrà nel corso dell’anno.
[La prima del film, annunciata a marzo 2020 e annullata a causa dell’emergenza covid, si è tenuta ad ottobre nel corso del Sitges, il Festival internazionale del cinema fantastico della Catalogna, ospitato nell'omonima città spagnola. N.d.T.]

3. Qualche anno fa ci siamo sentiti al telefono, al tempo stavi lavorando alla rivista Dodgem Logic e stavi scrivendo Jerusalem. Northampton è stata al centro della tua opera per molto tempo e, in ogni nuovo progetto, sembra chiederti sempre più attenzione. Scherzando mi dicesti che il tuo primo romanzo era lungo un centinaio di pagine incentrate sulla storia della città, il tuo secondo conteneva più di un milione di parole su un chilometro quadrato di Northampton e il prossimo sarebbe stato di un miliardo di parole sul tuo soggiorno. Perché è così importante per te scrivere di cose così vicine alla tua città?
Non sono sicuro che questa domanda mi verrebbe fatta così spesso se scrivessi, ad esempio, di Londra, e suppongo che in questo risieda gran parte della risposta.
Nonostante, nel mondo, gran parte dei media sia focalizzato e interessato soltanto alle capitali nazionali, non è lì che la maggior parte delle persone vivono, abitano piuttosto in posti trascurati e culturalmente anonimi come, ad esempio, Northampton.
Nei miei infervorati scritti sull'importanza della città, sto cercando di insistere perché venga riconosciuta come un fenomeno geografico e storico con la stessa importanza di Londra o di Roma - qui è stato inventato il parlamento, l'industria e il libero mercato – e, per estensione, ad ogni luogo caro a qualcuno deve essere garantito lo stesso apprezzamento.
Scavando nella storia e mitologia, eccezionalmente ricche, di Northampton sto cercando di reinvestire la città di significato, e di suggerire una tecnica che può essere applicata da chiunque e ovunque. Se vogliamo rendere migliori e più ospitali i luoghi dove viviamo dobbiamo, in prima istanza, rinnovare e ristrutturare l'idea di quei posti.
Ovviamente, non scrivo unicamente di Northampton. In un racconto che ho finito di recente, Location, Location, Location, mi avventuro fino a Bedford che si trova a 40, 50 chilometri da qui. E mi spiace ma alla fine Jerusalem contiene soltanto 615mila parole, più dei due volumi di Guerra e Pace ma meno delle due parti della Bibbia o delle opere complete di Shakespeare. Per favore, non perdere la stima che avevi di me!

4. Northampton è presente anche in The Show? In che misura?
Nonostante le incredibili performance di alcuni tra i migliori attori nazionali, credo che Northampton - dove il film è ambientato e dove, dato l'attuale disperato stato di abbandono, ci è stato dato accesso a tutti i suoi luoghi più segreti - rubi la scena a tutti.
Northampton è uno dei più ricchi ed eccentrici collage di stili architettonici del Paese, dai suoi nightclub in stile baronale scozzese alle millenarie chiese gotiche fino allo sfarzoso municipio vittoriano. E sebbene, da un certo punto di vista, The Show sia un delirante fantasy urbano pieno di personaggi improbabili e stravaganti, chi tra gli abitanti ha visto il film sembra concordare sul fatto che siamo riusciti a catturare la reale atmosfera di Northampton che è effettivamente piena di personaggi improbabili e stravaganti.
Dal momento che Northampton - attraverso l'operato di James Hervey, teologo eloquentemente deprimente del Diciottesimo secolo - è la culla del movimento gotico e, di conseguenza, di tutti i generi letterari successivi, credo che abbiamo creato una storia gotica realmente moderna, un racconto che, per lo meno, presenta un gotico davvero moderno.
Il disperato entusiasmo del consiglio comunale di Northampton di supportare un film che ritraeva la città in precario equilibrio su un abisso di sogni in rovina e di persistenti incubi  - ci è stata concessa per i nostri uffici di produzione la vecchia sede del comune in stile KGB degli anni '50 – ci porta a un'altra ragione per la mia apparente ossessione per Northampton.
Nei primi mesi del 2018, Northampton è stata la prima città inglese a collassare sotto il duplice fardello dell'austerità e del continuo malgoverno dei Conservatori. L'effetto è stato che la città poteva garantire soltanto i servizi minimi per i suoi abitanti più vulnerabili.
È la città più grande d'Europa e perciò ci sono parecchie di queste persone vulnerabili. Ora sono sorte diverse “tendopoli” nelle zolle più disponibili di terra di nessuno con i loro confini che lambiscono gli ingressi, pieni di spifferi, delle strade riservate allo shopping. Numerose persone disabili si sono viste negare i sussidi di cui avevano bisogno, o sono state costrette a tornare al lavoro col risultato, a livello nazionale, che oltre un migliaio tra loro sono morte.
Di recente, a Northampton, almeno due bambini o neonati sono stati uccisi dai loro genitori dopo che i servizi sociali, sovraccaricati fino al punto di rottura, non sono riusciti a rendersi conto che i piccoli erano a rischio.
Ogni notte il pronto soccorso locale sembra in piena zona di guerra con gli uomini contati... mia cognata è stata lasciata agonizzante per diciannove ore in un corridoio in attesa di cure... e tutto questo ben prima dell'imminente uscita dall'Unione Europea e dell'incombente governo di quel grottesco politicante razzista di Boris Johnson.
Ho notato che diversi luoghi, sia a livello nazionale che mondiale, stavano avendo dei benefici dall'essere la principale location per serie TV o simili, così abbiamo fatto il massimo sforzo per raggiungere qualcosa di simile anche per Northampton: con la nostra opera di finzione speriamo di riuscire a lenire alcuni degli attuali mali della nostra città.
Lo ammetto, anche a me sembra una scommessa irragionevole ma al momento, in questa città, è tutto quello che ci è rimasto. 
Alan Moore visto da Alessio Spataro
5. Ho letto Jerusalem duranti i viaggi in aereo per l'Italia dove avevo una relazione sentimentale. Ho impiegato più tempo a leggere il libro che a mandare all'aria la mia storia. Che cosa ti ha spinto a scrivere un romanzo così colossale?

Beh, se il concetto centrale di Jerusalem, che è lo stesso della relatività generale di Einstein, è corretto, la ragione per cui ho realizzato un libro così lungo da essere praticamente ingestibile è la stessa che ti ha, con celerità, spinto a rovinare la tua relazione italiana: entrambi viviamo in un “universo blocco” predeterminato in cui l'idea di libero arbitrio è soltanto un'illusione prospettica della terza dimensione.
Una risposta meno tecnicamente corretta ed estremamente noiosa è che Jerusalem si è originato dalla collisione di almeno una mezza dozzina di idee per romanzi distinti e separati: volevo scrivere di Northampton con maggiore profondità e intensità rispetto a quanto ero riuscito a fare con La voce del fuoco; volevo dire la mia sul concetto fondamentale della morte, per me e per tutti quelli che hanno mai vissuto; volevo presentare la mia tesi su una tradizione visionaria o apocalittica in lingua inglese che ha inizio con la traduzione della Bibbia da parte di John Wycliffe e continua con Bunyan, Blake e John Clare fino ai moderni come Joyce e Beckett; volevo fornire alla classe operaia una propria grandiosa e incolta mitologia; volevo investigare la moltitudine di fattori, economici, sociali, psicologici e politici che giocano un ruolo nella povertà o che da essa vengono causati; volevo vantarmi della mia mostruosa e meravigliosa famiglia e tentare, retroattivamente, di salvare la cugina di mio padre, Audrey, dalla sua tragica fine; volevo scrivere un romanzo ambizioso sia come contenuto sia nella forma; e avevo, da tempo, un vago desiderio di scrivere un libro per ragazzi, tenendomi però ben lontano da quello che, attualmente, pare un genere popolare e redditizio in modo sospetto. La mia magistrale/rovinosa illusione è stata quella di immaginare che questa piccola biblioteca di progetti così estremamente disparati potesse essere condensata in modo coerente in un unico volume, presumibilmente stupefacente.
Qualcosa legato all’impossibile e schiacciante difficoltà e alla demente magnificenza di un simile progetto deve aver solleticato il mio inutilmente complicato ego così ho trascorso dieci anni della mia vita a cercare d’essere all’altezza del mio folle e inattuabile spunto iniziale mentre tu hai speso un po' meno tempo a mandare a rotoli quella che sembrava essere un'idilliaca relazione trans-europea: onestamente non so per chi, tra noi due, provare maggior pena.

6. Tu, naturalmente, non tratti i lettori con superiorità e scrivi quello che ti pare e come ti pare. Diverse persone mi hanno confessato d’essere intimidite all’idea di iniziare Jerusalem oppure d’essere rimaste esterrefatte da alcuni dei suoi contenuti. Uno dei miei amici era persino un po' contrariato dalla sensazione di non capire alcuni passaggi. Devo ammettere che anch’io ho avuto la stessa sensazione rispetto ad alcuni elementi del libro. L’ho presa come una sfida per imparare nuove cose, ma immagino che non tutti reagirebbero così. Quali sono le tue considerazioni in merito?
Penso d'essere d'accordo con David Foster Wallace rispetto al colossale fallimento dell'avanguardia, poiché l'avanguardia è vitale per il progresso culturale eppure troppo spesso è deliberatamente alienante e ostica, quasi come una indispensabile posa stilistica, e questo impedisce qualsiasi autentico effetto se non in una minima ed elitaria area.  
Ho sempre cercato di comunicare idee complesse o difficili nella maniera più semplice e piacevole possibile; parlando ai miei lettori in modo chiaro senza guardarli dall'alto in basso o annacquando le idee che intendo esporre. Sono sicuro che siamo d'accordo che si tratta di un esercizio di equilibrio spesso difficile e che non è detto che funzioni ogni volta per tutti i lettori. Ad ogni modo, se l'opera comunica abbastanza di se stessa ad un numero sufficientemente ampio di lettori mi sento d'avere, in qualche modo, raggiunto i miei obiettivi.
Con Jerusalem ho messo maggior impegno nel realizzare un lavoro più accessibile rispetto a quanto fatto per La voce del fuoco, lì il primo capitolo era quasi intenzionalmente una sorta di fossato insormontabile.
Dato che Jerusalem era quasi interamente incentrato sulla classe operaia, realizzare una romanzo impenetrabile che quelle stesse persone non avrebbero potuto comprendere né apprezzare sarebbe stato un enorme fallimento. Tra i riscontri davvero più gratificanti che ho ricevuto sul libro ci sono stati quelli dei miei amici e parenti, tutti di estrazione proletaria.
Mio fratello Mike, quello incline al soffocamento e che suppongo sia l'inadeguato eroe di Jerusalem, è, come descritto nel libro, un idiota che sa appena leggere e scrivere, pericolosamente goffo e che riesce a cavarsela per via della sua supposta bellezza, e non aveva mai letto un romanzo in vita sua, figuriamoci un tomo di 1200 pagine. Dal momento che il libro parlava di lui, sono riuscito a convincerlo a leggerlo e l'ha fatto: ha letto dalla prima all'ultima pagina incluso il capitolo su Lucia Joyce che ha fatto impazzire e respinto persone con un sistema nervoso più sensibile e sviluppato. Mi ha detto che dopo una dozzina di pagine aveva dimenticato che non fosse scritto in una qualche lingua conosciuta e così l'ha letto senza problemi, naturalmente. Il romanzo gli è piaciuto ed è piaciuto anche ai suoi amici, tutti di estrazione popolare, a cui l'ha consigliato.
Sin da quando ho visto l'entusiastica risposta del ceto proletario di fronte ad opere elaborate come Il Prigioniero di Patrick McGoohan, sono convinto che una classe sociale non viene esclusa dal contenuto intellettuale di un'opera ma dal modo in cui questo viene veicolato.
Inoltre, personalmente credo che l’arte si manifesti come interfaccia tra l’artista e i singoli membri del suo pubblico. Se entrambe le parti non sono coinvolte allora l’opera, per lo meno per quel singolo individuo, non funzionerà. Un’opera d’arte sarà sempre un’esperienza più potente ed emozionante se lo spettatore o il lettore viene spinto a dare un contributo, come con il semplice processo di interpretazione. In questo modo lo spettatore diventa un collaboratore e percepisce, direi giustamente, che quell’opera è per lui e che ne fa parte, e viceversa. Ma, come ho già detto, è un difficile esercizio di equilibrio e non funziona per tutti. L’ultima cosa che volevo era che Jerusalem intimidisse il lettore, al massimo gli altri scrittori, e se alcuni dettagli non sono di tuo interesse, non lascerei che rovinino il piacere del romanzo nel suo complesso. È un libro pieno zeppo di elementi e quelli che non sei riuscito a cogliere probabilmente non erano così importanti.
Il mio amico Stewart Lee, il comico, mi ha chiesto, ad esempio, se le due vecchie senza nome che  partecipano alla mostra nell'epilogo o “postludio” del romanzo fossero dei personaggi importanti che avrebbe dovuto riconoscere tra quelli presenti negli altri capitoli. Gli ho detto di sì ma che non era un grande problema: Stewart mi ha detto di non dirgli chi fossero e che stava pensando di leggere il romanzo un'altra volta.
La mia amica Emily, dell’Arts Lab, l’ha letto cinque volte di fila ma potrebbe trattarsi di una mania o di un esaurimento nervoso: non consiglierei questa strategia al lettore occasionale.
 
La Seconda Parte dell'intervista è leggibile QUI

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