mercoledì 18 febbraio 2015

Otomo e Inoue: incontro tra Maestri

Nel seguito potete leggere una conversazione tra il leggendari KATSUHIRO OTOMO e TAKEHIKO INOUE pubblicata sulla rivista giapponese Brutus nell'Aprile del 2012 in occasione della Katsuhiro Otomo GENGA Exhibition, la memorabile mostra dedicata al creatore di Akira.
Non credo che Otomo e Inoue necessitino di parole di presentazione.

Il pezzo è apparso online, in Inglese, il 13 Novembre 2014 sul blog Mangabrog e la traduzione qui presentata utilizza quella fonte, con il permesso del sito

Per alcune immagini riguardanti la mostra del 2012 rimando al sito Chrunchyroll, qui.
Foto dalla Katsuhiro Otomo GENGA Exhibition.
Inoue: É qui che si terrà la mostra?
Otomo: Sì, è qui. All’inizio pensavo che fosse troppo grande ma mi sono reso conto che una volta allestita alla fine sarà piuttosto stipata. Non ci si rende conto fino a quando non si prova, credo.

Inoue: Nella mostra verranno esposte tutte le tavole di Akira. Alla fine quante sono in totale?
Otomo: Penso circa 2300.
Inoue: I volumi furono un vero shock, sai… Fu come: “Wow, ma allora si possono fare manga così!” Erano davvero originali. Fino al mio ultimo anno alle superiori avevo letto solo shonen, per cui leggere per la prima volta i tuoi fumetti mi lasciò a bocca aperta. “Accidenti! Questo è un manga per grandi!”

Otomo: Qual è stato il primo che hai letto?
Inoue: Domu. È stato come se venisse spalancata una porta su un mondo completamente diverso.
Otomo: Credo che in parte dipenda da quando scopri certe letture. Quando la mia generazione ha iniziato a fare manga, negli anni '70, leggevamo Rocky Joe e La stella dei Giants e le storie iniziavano a diventare più cupe.
Anche in altri media era un periodo incredibile: il cinema aveva la sua new wave, il teatro aveva Shuji Terayama e la Black Tent Troupe. In un clima simile era inevitabile che, allo stesso modo, i manga diventassero più cupi e bizzarri.
Editor: E poi, alla fine del 1982, Akira iniziò ad essere pubblicato. Otomo, tu avevi 28 anni.
Otomo: E tu a che punto eri a 28 anni?
Inoue: Credo stessi lavorando alla conclusione di Slam Dunk.
Otomo: Io stavo facendo Domu, a cui ho lavorato appena prima di Akira, e stavo cercando di capire come dare ai miei manga un taglio cinematografico. Credo che era a quello a cui pensavo quando avevo 27 o 28 anni: stavo sperimentando. Inoltre in quel periodo iniziavo a non dover chiedere troppi prestiti. (risate) Potevo uscire a bere qualcosa come una persona normale. Hai mai lavorato come assistente?
Inoue: Ho lavorato per Tsukasa Hojo su City Hunter per circa dieci mesi.
Otomo: Eri a Kichijoji allora? Magari ci siamo anche incrociati allora [Nota: Otomo vive a  Kichijoji.] Quando è iniziato Slam Dunk?
Inoue: Nel 1990. Sono una persona semplice per cui la mia ispirazione iniziale non era niente di più complicato dell'idea che il basket fosse divertente. Era di fatto la mia prima serie – tecnicamente ne avevo fatto una in precedenza ma era stata chiusa dopo 12 settimane. Era un periodo in cui miglioravo via via che facevo le cose, imparando sempre di più. Era davvero divertente. Poi arrivati al match finale avevo ancora delle cose che volevo fare, per cui credo che ho iniziato un po' a far fatica ma... alla fine credo d'aver messo tutto quello che avevo nella partita conclusiva e davvero ricordo l'intera esperienza di Slam Dunk come un gran divertimento.

Otomo: È splendido: divertirsi e diventare un bravo disegnatore. Comunque fare una serie settimanale è durissimo, no?
Inoue: Sì, non potrei davvero più farlo.

Otomo: Quanti giorni impiegavi per fare un capitolo di Slam Dunk?
Inoue: Beh, erano 19 pagine alla settimana...
Otomo: Allora immagino che impiegassi circa cinque giorni.
Inoue: Akira era settimanale?
Otomo: Quindicinale ma ci lavoravo in contemporanea alla produzione del film per cui in realtà facevo 20 tavole a settimana.
Inoue: Wow, roba da pazzi!
Otomo: Finivo di disegnare e andavo in studio per lavorare al film, senza neppure dormire. In quel periodo della mia vita dovevo essere al picco delle miei energie fisiche. (risate)
Editor: Quante persone ti aiutavano per i disegni?
Otomo: Avevo due assistenti.
Inoue: Due?!
Otomo: Più un terzo che veniva qualche volta per i retini.
Inoue: Ricordo d'aver sentito che hai disegnato gran parte degli sfondi tu stesso. È vero?
Otomo: Più di quanto pensi. Sì. (risate)
Inoue: Ma sono così dettagliati! È incredibile...
Otomo: Per via della mostra ho rivisto i miei vecchi lavori e devo dire che è stato imbarazzante.
Inoue: Non c'è stato niente che ti abbia colpito?
Otomo: Mmm, non so. Credo d'aver pensato che, in ogni modo, fosse evidente che stessi davvero cercando di dare il massimo. (risate)
Inoue: Credimi, hai fatto molto di più che cercare. In che anno sei stato pubblicato per la prima volta?
Otomo: Credo fosse il 1973. Era un lavoro che avevo fatto dopo il mio arrivo a Tokyo ma il disegno era davvero datato. Dall'anno successivo il mio stile incominciò a cambiare: fu divertente.

Inoue: Hai mai lavorato come assistente?
Otomo: Alcune volte ho aiutato altri artisti ma non ho mai davvero lavorato come assistente. Ho assorbito cose di qua e di là e dopo due o tre anni ho raggiunto un certo livello. Ripensandoci quello è stato davvero un periodo divertente.

Inoue: I tuoi lavori di quel periodo sono inclusi nella mostra?
Otomo: Sì, le mettiamo, quasi per masochismo. (risate) Hai ancora il tuo primo manga pubblicato?
Inoue: Sì, ben nascosto da qualche parte. (risate)
Otomo: Non lo guardi mai, vero?
Inoue: Mai. Mostrarlo sarebbe senza dubbio masochismo. Se mai sentissi il bisogno di auto-infliggermi una punizione orribile forse lo aprirei.
Otomo: Ci sono sempre degli aggiustamenti nello stile di un artista durante la sua carriera, il disegno si evolve. Tutto quello che devi fare è darci dentro quando sei giovane e disegnare quanto più possibile e diventare davvero bravo. I manga al giorno d'oggi, però, sono disegnati con dei simboli – simboli predeterminati che la gente dispone sulla tavola. Non è davvero disegnare e non penso che in quel modo uno possa davvero migliorare. Credo sia davvero importante guardare le cose e disegnarle.

Editor: Che cosa ne pensi dei lavori di Inoue?
Otomo: Grazie ai tanti artisti eccezionali come lui che si stanno mettendo in evidenza credo di poter tranquillamente smettere e lasciare tutto a loro. (risate)
Inoue: Ora non facciamo troppo gli avventati! (risate)
Editor: C’è stato un momento in cui hai capito d’essere migliorato? Qual è la tua definizione di “bel disegno”?
Inoue: Oh, non sono affatto bravo. Per nulla.
Otomo: Questa conversazione non ci porterà da nessuna parte se entrambi insistiamo col dire che non siamo dei bravi disegnatori. (risate)
Inoue: Mmm. Penso che il momento sia quando il disegno smette d’essere troppo rigido e il segno si ammorbidisce. Nel mio caso ho iniziato partendo davvero da un livello basso (risate) e credo che sia passato da un segno molto rigido e piatto a qualcosa di più morbido e tridimensionale. Inoltre i miei manga erano davvero semplici dal punto di vista della composizione della tavola e così ho imparato a disegnare usando molte prospettive differenti. Di fatto ho continuato ad aver voglia di disegnare senza mollare tutto. 
Otomo: Alla fine si raggiunge un punto per cui ti senti davvero libero, vero? Perché puoi disegnare qualsiasi cosa nel modo che vuoi. Disegnare per tanto tempo aiuta a vedere le cose come non le avevi mai viste prima in termini di composizione, in termini di pose.

Inoue: Puoi raccontarmi la tua esperienza nel disegnare macchinari?
Otomo: Mi piacevano le macchine. È semplice. Mi piacciono le cose complicate e intricate.
Inoue: Io non sono assolutamente in grado di fare cose simili. Non ho l’immaginazione necessaria. Ero il tipo di bambino a cui piaceva giocare all’aperto, non ho mai giocato con i modellini o cose simili.

Editor: Che mi dici dei grattacieli?
Inoue: I grattacieli sono qualcosa che esiste per davvero per cui posso semplicemente dire ai miei assistenti di disegnarli. (risate) Le cose che esistono le posso fare. Ma Otomo disegna veicoli e cose che non sono per nulla reali: si tratta di una cosa completamente diversa.
Otomo: Ma il manga che sto facendo adesso è ambientato tra i monti, durante il periodo Meiji, per cui non c'è alcun macchinario. Sto avendo dei problemi nel disegnare i cinghiali selvatici. In giro non ci sono così tante foto di cinghiali per cui devo andare a vederli direttamente dal vivo. Gli alberi e l'acqua.
Inoue: Concordo. (risate)
Otomo: In più non ho assistenti.
Inoue: (risate) Presto riprenderà Vagabond. È già deciso in quale numero della rivista uscirà ma non voglio annunciare nulla fino a quando non finirò davvero di disegnarlo.
Otomo: Per ora sto lasciando che le tavole si accumulino prima di iniziare a pubblicare e questo significa che non ho una scadenza per fare X pagine in Y giorni e… non è una brutta cosa. Sono stato fuori dai giochi per un po’ così ho bisogno anche di un periodo di riabilitazione. 
Inoue: Ah, così tu hai bisogno di riabilitazione. A volte dopo essermi preso una pausa di qualche tempo, una volta ritornato a disegnare, per un po’ faccio dei disegni mediocri prima di iniziare a sentire che ho ripreso la mano… ed è sempre un sollievo quando succede.
Otomo: Ho avuto persino bisogno di tempo per riabituarmi al pennino. È da un bel po’ di tempo che non ne usavo uno.
Inoue: Sembra un bella cosa… tornare ad abituarsi all’uso del pennino. È come se avessi appena iniziato la tua carriera.
Otomo: I pennini sono complicati. Voglio dire… non ho mai smesso di disegnare, ma i pennini per i manga… sono davvero difficili da usare. In parte è perché utilizzo un tipo di pennino che è particolarmente poco collaborativo che quasi odio l’idea di usarlo per disegnare.
Editor: I lavori di entrambi sono stati tradotti e pubblicati all’estero ma Akira è stato un vero pioniere in questo.
Otomo: Facemmo un sacco di lavoro per ribaltare le tavole per la versione americana.
Inoue: Mi sembra che ora li pubblichino nel formato giapponese con lettura da destra a sinistra.
Otomo: Sì, ultimamente ho sentito che voglio pubblicare i manga nel loro formato originale ma non molto tempo fa non era così. In America in particolare volevano continuare con il loro modo di leggere i fumetti. Invece in Europa non avevano problemi a usare il formato giapponese.
Inoue: Un altro cambiamento è l’avvento degli e-book. Persino il mensile di Shonen Jump che stavano pubblicando in America ha chiuso e, al suo posto, è partita un’edizione settimanale in formato digitale.
Otomo: Di sicuro le cose stanno cambiano. Guarda i musicisti: si stanno spostando ad auto-produrre la loro musica tramite le proprie etichette discografiche. Mi piace andare in libreria e nei negozi di dischi e per questo, personalmente, non sono sicuro d’essere così eccitato per questi cambiamenti… ma le cose vanno così.

Inoue: I manga sono sempre stati disegnati con l'assunto che sarebbero stati stampati su carta per cui non è pensabile che possano venire trasformati in e-book in quel modo. La situazione in Europa è tale per cui è difficile che i manga si diffondano se non in formato e-book e credo che sia un problema che forse devo affrontare. Mi piacerebbe pensare un po' a che cosa il formato digitale potrebbe permettermi di realizzare.
Otomo: Non sarà lo stesso se si prenderanno i manga, semplicemente scansionandoli, per visualizzarli su un qualche dispositivo; probabilmente dovremmo fare le cose in modo diverso rispetto alla lettura su carta. Però il mondo è pieno di gente di tutti i tipi e penso sia meglio se un artista decide da sé come vuole disegnare il proprio lavoro e renderlo disponibile.

[L'articolo, in Inglese, è disponibile su Mangabrog
Foto dalla Katsuhiro Otomo GENGA Exhibition.

mercoledì 11 febbraio 2015

Angoulême 2015: un reportage

Nel seguito potete leggere un reportage firmato dall'amico Andrea Pau che, in compagnia del "pard" e disegnatore Jean Claudio Vinci, ha partecipato alla 42esima edizione del Festival International de la Bande Dessinée d'Angoulême tenutasi dal 29 gennaio al 1 febbraio scorso.

Andrea Pau è autore della serie di romanzi Rugby Rebels, edita da Einaudi Ragazzi e illustrata da Vinci, giunta al sesto volume; sempre per i disegni di Vinci, ha sceneggiato il fumetto Radio Punx, disponibile su Verticalismi.

Un grazie ad Andrea per la disponibilità.
GIORNO#0 27-28/01/2015
Tutte le strade portano a Roma.
Almeno, quelle che da Cagliari portano ad Angoulême, a una delle più importanti Fiere europee di fumetto. I sardi, come me e il socio Jean, ci arrivano dopo un giorno di viaggio, molli e profumati come camembert. Ci arrivano dopo due aerei in ritardo, un treno ad alta velocità, alcuni autobus, un panino con porchetta davanti al lago Albano, un sonno che levati, un libro letto e uno iniziato.
Angoulême accoglie i sardi con un clima meno pungente di quello paventato dagli amici scafati. Il tempo permette di camminare, e i sardi camminano, per impossessarsi degli spazi.
Le strade della città, tra salite e discese, eruttano fumetto (no, scusate, volevo dire che eruttano bande dessinnée, ché i francesi ci tengono). Sui muri salutano Tin Tin e Lucky Luke. Sulle vetrine, fogli fotocopiati ricordano a tutti che anche Angoulême est Charlie Hebdo. I cartelli con il nome delle vie hanno forma di balloon. Nel centro storico, Rue Goscinny incrocia Rue Hergé. Dentro il palazzo del municipio, c'è una sala intitolata a Hugo Pratt.
Per dire.
Il giorno che precede l'apertura della fiera si respira attesa: padiglioni in costruzione; autori in incognito; librerie con i tavoli per le dedicaces già pronti; bettole dove puoi spendere stipendi interi in cognac superieur.
Per arrivare al mitico museo della Bande Dessinnée bisogna oltrepassare il fiume (e prostrarsi in adorazione mistica davanti alla statua di Corto Maltese).
La gente è cortese. A osservarli, vengono in mente pensieri terribilmente esterofili: tipo che gli angùlemesi hanno probabilmente capito che il pubblico della Fiera è una risorsa da blandire, non una seccatura da abbattere a occhiatacce, come succede ad alcune fiere in Italia.
Lo so, sono così provinciale che… faccio senso.
Ma forse è solo il delicato afrore del camembert.
L'ingresso dell'Hotel de Ville.
La statua di Corto Maltese.
GIORNO#1 29/01/2015
Nemmeno Sasha Grey ha subito tante perquisizioni approfondite quante ne ha dovuto subire quest'anno il pubblico della Fiera di Angoulême. Dalla strage di Charlie Hebdo sono passate solo tre settimane: si intuiscono rabbia smisurata e commozione diffusa. Si teme che il fanatismo omicida colpisca altri fumettisti, perciò l'ingresso dei padiglioni si oltrepassa solo dopo una piroetta al metal detector e una perquisizione delle borse stile Starsky e Hutch.
Il padiglione degli editori più tradizionali e potenti è un potpourri (siamo in Francia, no?) di sensazioni diverse. Successi da cinquecentomila copie a tomo e piccole perle (ancora) misconosciute; autori esordienti e personaggi leggendari; così tante novità da far esplodere le pupille. Glenat, Dargaud, Soleil, Dalcourt, Le Lombard, Casterman, Gallimard, Paquet sono raccolte a pochi metri l'una dall'altra, sfoggiano padiglioni sontuosi.
Il pubblico sciama tranquillo dalle dediche agli scaffali.
Si riesce perfino a parlare con gli editori (chimera per chi, come il sottoscritto, non è uso piegarsi a vanità moderne come prendere appuntamenti). Che poi, parlare... la lingua francese per chi scrive è come Alexandra Daddario: so che esiste, che è piacevole, ma non ho mai avuto il piacere.
Ci si esprime perciò in un melange di inglese, francese sardizzato, swahili e chi più ne ha. Tipo Salvatore del Nome della Rosa, ma con riferimenti meno colti.
La sera il ritrovo è Place des Halles, pochi metri dai padiglioni principali. I tavolini dei locali si riempiono di fumettisti, gli italiani fanno combriccola.
Davanti ai bicchieri di birra e di kir ognuno ha la sua Angoulême da raccontare, aneddoti gustosi da condividere, lavori da mostrare, speranze da esternare.
A volte, si riesce persino a non parlare di fumetti. Bei momenti.
L'enorme lavagna con i pensieri per Charlie Hebdo al Museé de la BD.
Una giovane mamma dà una notizia importante ai cessi del bar.
GIORNO#2 30/01/2015
Il caffè ad Angoulême lo fanno lungo come una stagione delle piogge. E ugualmente annacquato.
È lungo, ma molto meno annacquato, anche il padiglione Le Nouveau Monde, quello degli editori 'indipendenti'. Sono case editrici dalle dimensioni meno ciclopiche rispetto a quelle dei due padiglioni de Le Monde des Bulles, ma che offrono una visione fertile della scena fumettistica europea.
Un disparato ventaglio di formati (si va dal classico cartonato di cinquanta pagine a tomi brossurati di oltre trecento), tratti grafici (dal realistico puro alle varie declinazioni del grottesco), di influenze (racconti dall'impianto classico o fumetti minimali di derivazioni americana, giapponese, italiana...). Un vero fondale ricco di tesori semisommersi, quasi impossibile da dragare nelle poche ore lasciate dagli incontri con gli editori o i caffè (lunghi anche in senso orario) con gli amici. Il colpo d'occhio è spettacolare: umanità varia che guarda, che tocca, che compra. Ci sono scene che fanno bene al cuore, come quella del bimbetto in carrozzina che sfogliava un libro cartonato. Lo spalancava, lo toccava. Era il SUO libro: perché gli editori portano in libreria fumetti per tutti, anche per i ragazzi più piccoli. E in quantità industriale, anche.
A quanto ho letto in giro, negli ultimi 15 anni il fumetto in Francia ha mantenuto costante il numero totale dei suoi lettori grazie anche ai buoni risultati del fumetto per ragazzi. I libri pubblicati, invece, sono praticamente triplicati, e questo fatalmente riduce il numero delle copie vendute…
Ma lasciamo perdere le analisi macroeconomiche. Mi sono già rotto i coglioni io, figuriamoci voi!
L’importante è che quel post lattante, fra quindici anni, lascerà probabilmente da parte i cartonati per l’infanzia e leggerà roba più adulta.
Ma leggerà, santiddio. E leggerà fumetti.
Le file per gli acquisti.
Le Nouveau Monde.
GIORNO#3 31/01/2015
It's a long way to the top if you wanna rock and roll, cantavano gli Ac/Dc.
È una strada lunga e la gente è pure in coda, aggiungo io.
La mattina, ancora prima che i padiglioni aprano, una fila lunghissima di persone aspetta di entrare nello stand Jeunes talents, quello dei giovani talenti. Autori (esordienti o meno) fanno la fila al gelo per parlare con gli editor delle maggiori case editrici. Se va bene strapperanno un contratto, al peggio un contatto.
Molti nemmeno riusciranno a entrare.
Non essendo Jeune e tanto meno talent (rubo la battuta al bravo Luca Blengino), ho preferito visitare le mostre. Strepitose quelle dedicate a Calvin e Hobbes, Taniguchi e a Fabien Nury, coloratissima quella di Jack Kirby, commovente e ciclopica quella che il Musèe de la BD ha dedicato a Charlie Hebdo e agli autori morti il 7 gennaio.
Ma il sabato è proprio il giorno delle code. Code (infinite) per gli autori in dedica, code (lunghissime) per pagare gli albi (giuro, segue documentazione fotografica), code per trovare un ristorante libero.
Code durante la Marcia degli autori, che protestavano contro la riforma della previdenza della categoria. Il talentuoso illustratore Luca Erbetta ci raccontava come in Francia il sindacato dei fumettisti, lo SNAC BD, fosse un’entità con cui il governo e gli editori devono fare i conti. Il sindacato è nato grazie all’azione di autori di primo rilievo come Lewis Trondheim, che hanno speso la loro personalità anche a favore di autori meno importanti.
Come sarebbe andato a finire il caso Corriere della Sera se in Italia avessimo avuto  un sindacato di questo genere? Domande oziose. Ma torniamo alla folla.
Che il sabato è ovunque, anche negli ambienti più “esclusivi” (mettiamolo tra virgolette, va').
Tipo il Mercure.
Quand'ero giovane e agile riuscivo quasi sempre a imbucarmi dietro le quinte dei concerti, dribblando con abilità la security per scambiare due parole con gli artisti.
Ora che mi sono espanso, per imbucarmi uso il pass da autore. Il Mercure di cui sopra è un albergo a due passi da Place des Halles, e la sera diventa una specie di Area Pro. Editor, autori, addetti ai lavori centrifugati in un tornado di risate, pacche sulle spalle, anchetuqua!, acosastailavorando?, eccetera.
Auteurs che parlano tra loro e gente che si è palesemente imbucata. Come chi scrive, del resto.
Dopo pochi minuti, pesce fuor d’acqua, sono tornato nel mio habitat naturale, la birreria.
Il fatto è che di sabato, ad Angoulême, tocca fare la fila anche per una bière.
L’ultima della Fiera, perché domani si parte presto. Si torna a casa… a la santé!
Jeunes talents.
La precarietà non è un mestiere nemmeno in Rue Hergé.
Il Re in mostra.

giovedì 5 febbraio 2015

L'ultima intervista di Alan Moore?

Fotografia di José Villarrubia. Utilizzo autorizzato dall'autore.
Il 9 Gennaio 2014 sul sito di Pádraig Ó Méalóid viene pubblicata una lunghissima intervista, condotta dallo stesso Ó Méalóid, ad ALAN MOORE. Il pezzo, intitolato "Last Alan Moore interview?", tradotto e proposto soltanto in minima parte anche su siti italiani dedicati al fumetto, è la risposta di Moore al vibrante dibattito seguito all'incontro per il lancio della biografia scritta da Lance Parkin (pubblicata poche settimane prima) e la concomitante proiezioni di alcuni dei corti realizzati insieme al regista Mitch Jenkins

Nell'intervista Moore tratta temi legati alle sue opere, alla violenza sessuale, al razzismo, ai doveri dello scrivere, alla poca professionalità dei giornalisti di settore, fino a (cercare di) mettere la parola fine sull'annosa diatriba con Grant Morrison. Inutile dire che le circostanziate ed elaborate risposte di Moore, nel suo classico stile non privo di pungente ironia e sarcasmo, hanno scatenato a loro volta accese repliche i cui riverberi continuano tuttora.

Nel seguito potete leggere la traduzione integrale dell'intervista, autorizzata da Pádraig Ó Méalóid e Alan Moore. La traduzione è stata realizzata da Biagio Cephalus & Omar Martini & smoky man; supervisione di Liri Trevisanello. Un sentito e doveroso grazie va agli autori dell'intervista per la loro autorizzazione e a Biagio, Omar e Liri per il supporto e fondamentale contributo.

L'intervista in lingua originale è disponibile sul sito di Pádraig Ó Méalóid: qui.
Buona lettura.  
Illustrazione di Tiziano Angri.
Qualche parola di spiegazione su quest’intervista: il 26 novembre 2013 si svolse An Evening with Alan Moore [Una serata con Alan Moore, N.d.T.], un evento in cui Moore fu impegnato in una conversazione col suo biografo Lance Parkin, autore del libro Magic Words, appena pubblicato da Aurum Press. Durante l’incontro furono anche proiettati due corti, Act of Faith e Jimmy’s End, entrambi parte di una serie più ampia di cortometraggi, inoltre alcuni collaboratori di Moore presero la parola e seguì una sessione di domande poste dal pubblico.

La serata sembrò essere un grande successo - per lo meno, io ero lì e questa fu la mia sensazione e quella di tutte le persone con cui parlai - ma uno dei partecipanti non ne fu felice e scrisse su Twitter il suo disappunto. Il suo tweet fu: “Mi sarei davvero augurato che An evening with Moore non avesse coinvolto su un palco quattro bianchi che prendevano le difese del ‘golliwog’ definendolo un ‘forte personaggio di colore’ – a seguire un cortometraggio in cui una giovane donna si spoglia, si veste con ‘abiti da troia’ e si uccide sullo schermo – e ancora, Moore che insulta Gordon Brown sulla base di una disabilità mentale e fisica - poi me ne sono andato.”

Seguì un grande dibattito su Internet, e parole di condanna furono spese nei confronti di Moore e delle persone a lui legate, entrambe basate sull’assunto che avessero commesso quello che si supponeva avessero fatto e che nessuno si era curato di verificare direttamente con loro. Lo stesso twittatore non l’aveva fatto - tienilo a mente - anche se, in origine, avrebbe voluto porre la seguente domanda: “Stavo per dire a Moore che trovavo Killing Joke davvero problematico nella sua rappresentazione di Barbara Gordon (che veniva sparata e aggredita sessualmente) e stavo per chiedere se, potendo tornare indietro nel tempo, avrebbe scritto il fumetto in modo diverso, da quel punto di vista. Ma dopo l’applauso che ha accolto la fine del suo (per me) gratuito, opportunista, sessista [in originale slut-shamming, ossia “processo in cui le donne vengono attaccate per la loro trasgressione dei codici di condotta sessuale”, N.d.T.], disturbante cortometraggio sul suicidio di una donna, ho pensato che non fosse il momento adatto”, probabilmente perché temeva di venire linciato dall’orda ululante di fanatici appassionati di Moore.
Alcuni hanno espresso le loro opinioni. Alcuni si sono schierati da una parte o dall’altra. Io stesso ho partecipato ad alcune di queste discussioni e questo mi ha portato a offrimi volontario per porre ad Alan Moore quelle domande che nessuno aveva mai osato fargli. In precedenza l’avevo intervistato in diverse occasioni ma nonostante ciò ero piuttosto nervoso per quest’intervista, ma sembrava che qualcuno dovesse farlo e quel qualcuno potevo essere anche io. Ho avuto le mie risposte ma anche qualcos’altro in aggiunta, quelle “questioni secondarie che mi piacerebbe sollevare”, come le chiama Moore. Per cui… giudica tu stesso. [Pádraig Ó Méalóid] 

[La trascrizione dell'incontro An evening with Moore può esser letta, in Inglese, sempre sul blog di Pádraig Ó Méalóid: qui.
Il video è disponibile su YouTube: qui. N.d.T.]
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Alan Moore: Pádraig, ti ringrazio per la tua lista di domande. Con la stagione più crudele che incombe su di noi, potrei metterci un po’ a completarla ma spero di essere in grado di rispondere a tutti gli argomenti che citi, per lo meno da esserne personalmente soddisfatto, e a seguire, se me lo permetterai, ci sono un paio di questioni secondarie che mi piacerebbe sollevare.

The Golliwogg / Galley-Wag

Pádraig Ó Méalóid: C’è un personaggio nelle storie de La Lega degli Straordinari Gentlemen chiamato Galley-Wag, basato su Golliwogg, il personaggio creato nel 1895 da Florence Upton. Prima di tutto, mettendo insieme alcune cose che Kevin O’Neill ha detto in diverse interviste, ipotizzo che volesse utilizzare il personaggio dopo aver letto di Florence Upton, e che tu inizialmente fossi riluttante a farlo, ma alla fine hai acconsentito. È andata più o meno così?
Alan Moore: Riguardo la questione delle origini del personaggio chiamato Golliwog o Galley-Wag ne La Lega degli Straordinari Gentlemen il tuo riassunto è in larga parte accurato, anche se potresti aver esagerato o sovrastimato la mia iniziale “resistenza” rispetto al suo utilizzo. Di certo non vorrei che sembrasse che abbia avuto degli scrupoli da liberale circa l’inclusione del personaggio né che abbia ceduto alle pressioni del mio razzista collaboratore irlandese di South London. Per la precisione, per come ricordo l’evento o gli eventi, Kevin mi aveva inizialmente informato del potenziale che vedeva nel Golliwog(g), il personaggio di Florence Upton, mentre stavamo ancora lavorando al secondo volume dell’opera di cui parliamo. Questo potrebbe essere successo perché era un personaggio singolare in cui Kevin si era imbattuto nelle sue spesso strenue ricerche, che aveva le proprie origini nel tardo XIX secolo, il periodo su cui, al tempo, stavamo lavorando.
L’intenzione originale di Kevin potrebbe persino essere stata quella di usare il personaggio, in qualche modo, nel secondo volume della serie, anche se alla fine tutto quello che riuscimmo a fare fu una velata citazione ne L’Almanacco del Nuovo Viaggiatore che accompagnava il secondo libro. Dopo aver visto il personaggio e avendo sentito da Kevin la spiegazione delle sue origini, mi sono immediatamente reso conto che avrebbe potuto essere una figura molto utile e intrigante da inserire nella continuity della Lega e i miei unici dubbi erano basati su considerazioni estetiche e di logica della narrazione. (Questo non significa che questioni di etica oppure di politica non siano state prese in considerazione, ovviamente; semplicemente non avevo assolutamente alcun dubbio in quegli ambiti.)

Le difficoltà logiche ed estetiche che il personaggio presentava vertevano principalmente su come un personaggio come quello con l’aspetto ideato dalla Upton potesse venire razionalizzato e reso un’entità semi-credibile senza sacrificare le qualità fortemente indipendenti dell’originale, ad esempio rendendolo un giocattolo robot di qualche tipo. Una volta arrivato al concetto di un fuggiasco da un universo barionico o composto di “materia oscura” che è interconnesso col nostro, che arriva a Toyland - luogo che avevo definito in precedenza e situato al Polo Nord - e avergli dato l’automa di legno come concessione della robotica Regina Olimpia (dal racconto L’uomo della sabbia di Hoffman) qualsiasi problema relativo al personaggio è evaporato e siamo stati in grado di usarlo (credo in modo interessante) nella conclusione del Black Dossier. Credo sia stato nel periodo in cui è stato pubblicato il Dossier che ho parlato di queste questioni per la prima volta, anche se suppongo che, alla luce degli standard moderni, si tratti di un tempo remoto e la memoria necessiti d’essere rinfrescata.

PÓM: Al giorno d’oggi, il Golliwoog è generalmente visto come un personaggio razzista. Perché hai deciso di usare per un tuo lavoro un personaggio con una storia così problematica?
AM: Sperando di non sembrare pedante, credo che, attualmente, il Golliwog sia visto come un offensivo stereotipo razzista piuttosto che come un personaggio razzista. Un personaggio razzista, ossia un personaggio che viene percepito come razzista, sarebbe Bulldog Drummond, presente nel Black Dossier, o l’Allan Quatermain di Rider Haggard. Ma se mi stai chiedendo perché ho voluto usare un personaggio che viene sostanzialmente percepito come una grottesca caricatura razzista, direi che la risposta è perché io e Kevin avevamo capito d’aver identificato una considerevole differenza tra come il personaggio era stato originariamente concepito e introdotto e come era stato poi via via considerato. Sì, sono ovviamente consapevole che tra i conservatori nostalgici come Carol Thatcher ci sia questo sentimento, spesso dichiarato, secondo il quale quel giocattolo, che successivamente alla sua creazione ha ispirato insulti razzisti, dovrebbe tornare nei negozi e sulle etichette delle marmellate e che la sua esclusione sia un segno di come il “politicamente corretto” sia degenerato in follia. Avrei sperato che fosse piuttosto ovvio, bastava giusto pensarci un attimo, che fosse improbabile che io e Kevin fossimo di quell’opinione, ma pare non sia così. Quello che abbiamo colto nell’ originale della Upton era una figura positiva, forte e gradevole, presumibilmente una sorta di pupazzo animato (sebbene è presumibile che si trattasse di un pupazzo unico e di proprietà personale della Upton, dal momento che la produzione di massa di giocattoli con le fattezze del Golliwog, modificati in maniera lieve ma cruciale, è avvenuta solo dopo la pubblicazione delle sue storie), identificabile come “nero” solo per via del colore della pelle, in un periodo in cui gli unici altri personaggi di colore, in cui potersi apparentemente immedesimare, a comparire in opere di fiction, erano Jim [da Le avventure di Huckberry Finn, N.d.T.] e lo Zio Tom

Presumo, in mancanza di fonti antecedenti, che la Upton abbia dato al suo personaggio il nome “Golliwog” semplicemente perché le piaceva il modo vagamente assurdo in cui suonava la parola la cui derivazione più probabile è dal termine “polliwog" [in Inglese “girino”, N.d.T] (che, per evitare qualsiasi fraintendimento, è una parola che ha sempre significato “tadpole” [altro termine per dire “girino”, N.d.T] sin dalla sua origine dall’Inglese medievale “polwygle” e che sembrerebbe non sia mai stata usata, né nel Regno Unito né gli Stati Uniti, come espressione gergale di un qualche tipo, men che meno con connotazioni razziste).
L’utilizzo successivo, nel corso del XX secolo, della parola “wog” come termine dispregiativo per indicare tutte le persone non-bianche, sebbene spesso minimizzato dagli apologeti come l’acronimo di Western Oriental Gentleman [gentiluomo occidentale orientale, N.d.T.] o qualcosa di simile, è chiaramente un’appropriazione del nome del personaggio della Upton a cui è stata dato una negativa connotazione razziale che l’autrice non aveva mai avuto l'intenzione di dargli, ed ora, vestito in abiti da menestrello, viene usato come strumento di derisione razzista quando fino ad allora aveva simbolizzato esattamente il contrario. La Upton vestì la sua creazione in un abito nero perché quello era, ai tempi, lo standard per un vestito formale. Qualcuno potrebbe supporre che questo fosse un modo per indicare che si trattasse di una figura degna e rispettabile. Il coraggio e la forza del personaggio furono abilmente dimostrati nelle sue picaresche avventure così come il suo acume intellettuale. La mia opinione, e immagino lo stesso dicasi per Kevin, fu che ci trovassimo di fronte a un personaggio che, ai suoi tempi, era stato positivo, coraggioso, innovativo, ideato da una scrittrice e, in quanto tale, sottovalutata che probabilmente voleva introdurre una figura di colore, ammirevole e amabile, nell'immaginazione dei bambini Vittoriani che erano i suoi lettori di riferimento. Eravamo convinti che il personaggio potesse essere gestito in modo da restituirgli le eccellenti qualità della creazione della Upton e al contempo spogliarlo delle connotazioni razziali che erano state innestate sulla figura del Golliwog da coloro che se ne erano appropriati indebitamente e avevano ostinatamente distorto il suo lavoro. Anche se personalmente siamo convinti di essere riusciti nelle nostre buone intenzioni, una simile interpretazione può solo essere un fatto soggettivo. Sono trascorsi diversi anni dalla prima apparizione della nostra versione del personaggio e la presente discussione, duranti i quali il Galley-Wag pare abbia sollevato poca o nessuna controversia, e questo ci ha portato a credere che le nostre intenzioni siano state largamente comprese dai nostri generalmente perspicaci lettori.
Riguardo l’uso di personaggi “problematici” sulle pagine della Lega, mi vengono in mente un gran numero di figure letterarie - di cui ci siamo appropriati o che abbiamo re-inventato nel corso delle serie - problematiche quanto il Galley-Wag. Soltanto che non erano neri. Per esempio, in un certo senso, mi sorprende, alla luce delle attuali obiezioni, come il nostro utilizzo - nella prima serie - del Fu Manchu di Sax Romer sia passato senza il minimo brusio dato che, in questo caso, usavamo un personaggio che era stato per davvero pensato dal suo creatore originale come una esplicita caricatura razziale delle più negative e xenofobe e per il quale il nostro solo atto di redenzione è stato quello di suggerire che il “Devil Doctor” di Rohmer possa essere stato spinto dall’odio verso gli Inglesi legittimamente inculcatogli durante la sua infanzia negli anni delle bestiali e vergognose Guerre dell’Oppio. Nonostante questo, per quel che ricordo, neppure una parola. Avrei supposto che il tentativo, per dire, di rilanciare il franchise cinematografico reazionario di Fu Manchu, sarebbe stato altrettanto malvisto del revival del Golliwog post-Upton, ma ci deve essere qualcosa che mi sfugge o che non sono riuscito a cogliere.
La natura della Lega è tale per cui quasi tutti i personaggi interessanti provenienti dal mondo della fiction – o per lo meno quelli interessanti per noi – possono essere visti come problematici, da un punto di vista contemporaneo. Nei nostri tentativi di reinterpretare questi personaggi e renderli adatti a una narrazione moderna, abbiamo trovato delle soluzioni ed è inevitabile che ci sarà qualcuno che quasi certamente le troverà offensive. E per quanto queste persone abbiano, ovviamente, il diritto alla propria opinione, non vedo motivo per cui questo debba necessariamente influenzare le decisioni prese dagli autori di un'opera, autori che è verosimile abbiano pensato a lungo alla materia giungendo a conclusioni differenti.
Vorrei citare la piccola polemica generata su Internet dal nostro uso del personaggio di “Jimmy” nel Black Dossier. A quanto pare, sebbene fosse nostra intenzione dichiarata restituire al personaggio quei tratti di misoginia e sadismo, elementi poco esplorati ma presenti nell'ancora popolare creazione di Ian Fleming, si è levato un grido di protesta da parte di alcuni - probabilmente al corrente della sola versione cinematografica - i quali ritenevano che avessimo dissacrato l'amata icona della loro adolescenza attribuendogli delle caratteristiche spiacevoli di cui il loro eroe era del tutto privo. Come ho detto, queste persone hanno tutto il diritto di esprimere la loro opinione, ma dal punto di vista di quello che stavamo cercando di fare - ossia, spingere verso una riconsiderazione di questo omicida, donnaiolo e popolare modello maschile - quella opinione era del tutto inutile e ritengo che fossimo nel giusto a ignorarla.

PÓM: Che cosa replichi alla critica che non spetti a due uomini bianchi cercare di “rivendicare” un personaggio come il Golliwog?
AM:
L’idea che non spetti a due bianchi “rivendicare” (sebbene non sono certo che stessimo facendo esattamente quello) oppure, detto in altro modo, “utilizzare” un controverso personaggio nero - a meno che  non si intenda che questo principio si applichi solo ai bianchi che utilizzano personaggi di colore - sembrerebbe basarsi sull'assunto che nessun autore o artista dovrebbe permettersi di utilizzare dei personaggi che siano di razza diversa dalla propria. Dal momento che non riesco a pensare ad alcun motivo per cui questo principio debba riguardare solamente il tema della razza - e specificatamente i bianchi e i neri - allora presumo che debba estendersi anche a personaggi di diversa etnia, genere, gusti sessuali, religione, schieramento politico e, probabilmente l'aspetto più problematico in assoluto per le tante persone che prendono in considerazione questi temi, classe sociale. Non posso credere, naturalmente, che la mia percezione che un simile divieto sia manifestamente ridicolo e impraticabile sia un qualcosa di condiviso all'unanimità, e infatti sembrerebbe che non sia questo il caso.
Una variante di questo modo di pensare potrebbe essere il motivo che ha precluso, per così tanto tempo, una rappresentazione positiva delle donne, delle persone di colore e di differente orientamento sessuale dalla maggior parte dei media d'intrattenimento (i quali, storicamente, non hanno mai avuto una grossa rappresentanza di donne, persone di diversa etnia o di diversa sessualità), sebbene a pensarci bene è probabilmente il risultato di semplice ignoranza e di un comune pregiudizio privo di approfondimento.
Di sicuro, piuttosto che applicare un simile mal congegnato divieto di descrivere un qualsiasi differente gruppo di persone per mezzo di una qualche forma artistica, non sarebbe più saggio giudicare caso per caso a seconda delle specificità?
In effetti, che sia o meno l'approccio più sensato, dal punto di vista pratico è il solo modo in cui simili problematiche sono state giudicate nel passato, e in mancanza di una qualche alternativa non totalitaria, immagino che sarà il metodo attraverso il quale simili questioni verranno valutate per un considerevole lasso di tempo nel futuro. È perfettamente appropriato e corretto che la nostra interpretazione del Golliwog venga valutata e messa in discussione, come è successo in occasione della prima apparizione del personaggio qualche anno fa, ma pensavo che avessimo già risposto a questi appunti e che le nostre motivazioni fossero state generalmente accettate e comprese.
Spero non sia inappropriato o deplorevole confessare che sono rimasto un po' deluso dalla sollecita supposizione della mia presunta insensibilità o avventatezza razziale. Non mi aspetto che ci sia grande interesse per il mio disappunto ma è una questione su cui ritornerò a parlare più avanti, per cui ho pensato di segnalarlo in anticipo per quelli che si domandassero dove tutto questo ci stia inesorabilmente conducendo.
Ritornando alla domanda, sul fatto che sia “ammissibile” o meno per persone con una certa “appartenenza” scrivere di persone di tipo differente (e, ancora, mi chiedo perché una discussione simile non sia nata quando abbiamo “rivendicato” la nostra versione di Fu Manchu), faccio presente che, se questa restrizione venisse universalmente adottata, non avremmo avuto alcun autore proveniente dalla classe media capace di scrivere sulla situazione dei ceti meno abbienti, e questo avrebbe di fatto escluso tutti gli autori a partire da William Shakespeare (la cui eccezionalità quale esempio di scrittore proveniente, per quello che si sa, dalla classe operaia è attestato dal numero di teorici con origini più altolocate che ritengo che le sue opere potrebbero essere state composte solamente da un membro dell'aristocrazia).
Sebbene possa aver trasalito in molte occasione quando un autore del ceto medio come Martin Amis presenta i suoi (per lo meno ai miei occhi) pigri e offensivi studi sulle fragili classi meno abbienti, certamente esiterei prima di proporre l'imposizione di un’ideologia che escluderebbe anche le opere di Charles Dickens, Gerald Kersh e di svariate centinaia di eccellenti scrittori. Comprendo che potrebbe essere considerata cattiva educazione suggerire che le tematiche di classe siano importanti quanto quelle razziali, di genere o sessualità, tranne per il fatto che, per quanto mi riguarda, mi paiono persino più importanti e di cruciale rilevanza.
Dopotutto, sebbene in Occidente, dopo molti anni di dure lotte, ci sia ora permesso eleggere delle donne, dei non-bianchi e persino, per lo meno in teoria, persone che dichiarano apertamente una sessualità alternativa, sono abbastanza sicuro che non ci verrà mai permesso eleggere un uomo o una donna, qualsiasi sia la sua etnia o orientamento, che sia povera. Per cui, no, personalmente non vedo nulla di sbagliato di per sé nell'includere la creazione di Florence Upton nelle pagine della Lega, né, alla luce delle argomentazioni di cui sopra, non vedo come qualcuno potrebbe ragionevolmente adottare una simile posizione. Riguardo il fatto se siamo riusciti nella resa del personaggio rispetto alle nostre intenzioni è, chiaramente, una questione completamente diversa sulla quale, come ho già detto, chiunque ha diritto, ovviamente, alla propria opinione.

PÓM: Per quel che mi risulta, il Golliwoogg è l'unico personaggio, nelle storie della Lega - certamente tra quelli in pubblico dominio - a cui avete cambiato radicalmente le origini? Quali sono state le ragioni considerando che non avete fatto nulla del genere con gli altri personaggi?
AM:
È una domanda difficile a cui rispondere, anche se sembra basarsi su una percezione inesatta. Sebbene con tutta la moltitudine di personaggi del mondo della fiction che abbiamo incluso nella Lega abbiamo cercato, per quanto possibile, di rimanere fedeli allo spirito, natura e persino ai più piccoli dettagli delle figure originali, nell'atto di prendere queste entità dell'immaginario - con le loro passate avventure e storie - e aggiungerle a un mondo coerente abbiamo dovuto apportate piccoli o grandi cambiamenti a quasi tutte loro, per non dire di quattro su cinque membri del gruppo iniziale che erano ufficialmente morti prima dell'inizio della nostra serie.
Sul fatto di cambiare le origini di un personaggio, per quanto ne so il Golliwog non ha mai avuto una storia che ne raccontasse le origini, questa è più una preoccupazione da lettori di comics che non c'era nel 1895. Così come per altri personaggi antropomorfi per bambini apparsi più o meno nello stesso periodo, come per esempio le storie di Winnie the Pooh di Milne, suppongo che il Golliwog, per gli scopi della Upton, fosse sempre esistito incluso il suo cast di personaggi di supporto per cui non c'era alcun bisogno di raccontarne “le origini”.
Il procedimento attraverso il quale siamo arrivati all'ideazione delle origini del Galley-Wag è stato pressoché identico a quello che abbiamo usato per adattare l'Orlando di Virginia Woolf alla nostra, forse, troppo complicata continuity: nel caso di Orlando, una volta estesa l'immortalità del personaggio ancor più nel passato in modo da includere gli eventi dell'Orlando Furioso e dell'Orlando Innamorato (insieme alla leggenda di Rolando su cui il personaggio era originariamente basato), avevamo il problema di trovare una spiegazione logica che giustificasse la presenza del personaggio nella nostra continuity; una spiegazione che non violasse troppi degli elementi intorno ai quali il personaggio era stato originariamente creato. Con Orlando, credo che avessimo spiegato l'immortalità del personaggio e anche la sua propensione a cambiare sesso. La fiamma blu o la fonte dell'immortalità già presenti in Lei o La donna eterna di Rider Haggard fornivano la riposta al primo problema, mentre il cambio di sesso di Orlando veniva spiegato con Tiresia dell'antica Tebe da l'Edipo Re. Tornando al Golliwog della Upton, le difficoltà erano naturalmente differenti ma l'approccio è stato il medesimo. Sentivamo la necessità di spiegare l'aspetto fisico del personaggio, il suo modo di vestire e di comportarsi, la sua presenza nella nostra continuity. Visto che avevamo già usato gli “esperimenti genetici del Dr. Moreau” per Rupert Bear, Tiger Tim, Mr. Toad e compagnia nel secondo volume (personaggi di cui, direi, avevamo alterato le origini in modo piuttosto significativo), pensavamo che fosse necessario qualcosa di diverso. Volevamo preservare l'indipendenza e la forza mostrata dall'originale della Upton e questo, come detto prima, escludeva l'idea di renderlo semplicemente un altro dei robot giocattolo, sudditi della Regina Olympia. Credo che qualcuno si sia domandato perché non l'abbiamo semplicemente reso come un personaggio umano, positivo, di colore ma non era quello il tipo di personaggio con cui avevamo a che fare: il personaggio della Upton non sembrava un umano di colore perché non era stato pensato, per lo meno per quanto ne sappia, per essere un umano di colore.
Credo che originariamente sia stato concepito come un essere fantastico, eroico e romantico il cui colore della pelle non era un indicatore di una razza né più né meno della creatura gialla del Capitan Scannatutti di Mervyn Peake.

Per quale motivo, se la nostra intenzione era quella di studiare e ricreare l'originale della Upton, avremmo cercato di usare la stessa equazione di quegli impresari che l'avevano vestito, per primi, con un abito da menestrello? Quello che abbiamo fatto col personaggio è stato decidere che una figura con simili ridotte proporzioni non-umane - che sembravano suggerire una grande densità – e con quel colore nero non riflettente, potesse ragionevolmente essere un'entità aliena proveniente da quella parte di massa e sostanza mancante, costituente la maggior parte dell'universo, che viene ipoteticamente descritta come “materia oscura”; da un mondo di materia oscura con poca luce per cui il suono era il più probabile vettore d'informazione e in cui il calore veniva generato dalle stesse masse più grandi e compatte di materia oscura.
Per far riferimento e riconoscere le connotazioni razziali che si erano accumulate da quando la Upton aveva per prima ideato il personaggio, ho deciso che la nostra versione del Golliwog era molto probabilmente un fuggiasco da una galea di schiavi [in inglese “slave galley”, si veda nel seguito. N.d.T] nel cosmo di antimateria (e per questo abbiamo preso in prestito dalla fiction una razza aliena di schiavisti, già precedentemente introdotti nella nostra saga, i quali erano di un colore rosa per nulla problematico ed erano quindi perfetti per il parallelismo che volevamo). Facendogli inventare e costruire un velivolo per la sua fuga interdimensionale abbiamo tenuto conto delle avventure da aerostiere del personaggio della Upton e il suo arrivo sulla Terra passando per Balocchia al Polo Nord ci ha dato la possibilità di spiegare il suo abbigliamento terrestre e la presenza delle Bambole Olandesi.
Mi è inoltre parso che far sì che il personaggio si riferisse a sé stesso col nome “galley-wag” [“galley” è galea in inglese, N.d.T.] potesse incastrarsi perfettamente con la storia della sua fuga dalla schiavitù e al contempo distanziare la nostra versione dai riferimenti razziali e razzisti che si erano accumulati sin dalla sua creazione. Il suoi dialoghi, che per quello che posso dire non tradiscono alcun riferimento razziale, avevano l'intento di far risaltare il lato piratesco, intenso e piuttosto surreale con cui volevamo presentare il personaggio. (Il tono dei dialoghi usa il medesimo tipo di neologismi utilizzati dalla stessa Upton, per esempio, nel Regno di “Pankywank”). Come ho detto, si tratta di un procedimento pressoché identico alle altre revisioni e modifiche che abbiamo fatto, e immagino che la vera domanda che andrebbe posta è “ci sono dei personaggi della fiction che, per una qualche ragione, un autore e un disegnatore non dovrebbero mai esplorare o utilizzare?” E, con la massima chiarezza, la mia risposta è “no” con la condizione, come dichiarato in precedenza, che qualsiasi esplorazione o utilizzo dovrà essere poi giudicata nel merito.

PÓM: Hai dei piani per il Golliwoog e le Bambole olandesi in altre storie della Lega?
AM:
Non ho alcun piano specifico in mente se non che è probabile che il Golliwog apparirà in futuro nella Lega, in un modo o nell'altro. Potrebbe esserci nel prossimo quarto volume anche se sto pensando a un cameo per chiudere una sotto-trama e nulla di più. Vedremo. Di sicuro questo dibattito difficilmente influirà in un modo o nell'altro sulle mie decisioni.
Illustrazione di Francesco Frongia.
Violenza sessuale contro le donne

PÓM: Una delle caratteristiche della tua opera che viene sottolineata spesso nei dibattiti online è la prevalenza di episodi di violenza sessuale nei confronti delle donne, con diversi casi di stupro o di tentato stupro nelle tue storie. Per quale motivo senti la necessità di inserirli nelle tue storie? Non ti preoccupa che così facendo possa alienarti una parte dei tuoi lettori?
AM:
Questa è un'accusa seria e sostanziale e credo richieda un’altrettanto seria e sostanziale replica. Tra un momento parleremo del perché simili argomenti hanno la tendenza a emergere nei dibattiti online, dopo aver risposto alla tua domanda, ma prima vorrei definire esattamente che cosa si intende con “prevalenza” di episodi di violenza sessuale nei confronti delle donne, incluso stupro e abusi, nei miei lavori.
Avrei pensato che un termine come prevalenza avesse bisogno di una qualche quantificazione rispetto a ciò che è prevalente in relazione a cosa. È prevalente rispetto ad altre espressioni di sesso presenti nei miei lavori o forse rispetto alla violenza di natura differente da quella sessuale? Ammetto di non aver fatto il conto, ma non direi che sia così. Rispetto al tema sessuale, mi pare che ci sia di gran lunga prevalenza di relazioni sessuali consensuali e relativamente gioiose rispetto agli episodi di violenza sessuale. Riguardo la violenza di natura diversa da quella sessuale, nelle mie opere c'è ovviamente molta più violenza di questo tipo rispetto alla violenza sessuale, sebbene nella nostra attuale cultura questo è vero per qualsiasi tipo di opera, no? Di certo non posso accreditarmi alcun merito particolare. Per cui forse la prevalenza di cui si discute è la prevalenza, nelle mie opere, di episodi di stupro o di violenza sessuale rispetto a quelli presenti, per esempio, nella letteratura, nel cinema o nella musica contemporanea? Ancora una volta, non penso sia così.
In realtà quello di cui si sta parlando è la prevalenza di stupri e violenza sessuale nelle mie opere rispetto a quelle di altri scrittori che lavorando nell'industria dei comics? In questo caso, devo probabilmente concordare, soprattutto se stiamo parlando di scrittori di fumetti di trent'anni fa, quando ho iniziato con la mia carriera apparentemente all'insegna della fissazione per lo stupro. Se guardi il tentato stupro nel primo episodio di V for Vendetta, per esempio, vedrai che sono stato capace di identificare il crimine solo con le prime lettere sussurrate da una traumatizzata e balbettante Evey Hammond. Si tratta di una sola lettera in più rispetto a un albo della EC Comics di qualche decennio prima, in cui furono costretti a raccontare la storia, tuttora scioccante, di uno stupratore che si nascondeva dietro il distintivo da sceriffo senza poter far riferimento diretto al crimine se non implicitamente [Moore si riferisce probabilmente alla storia A Kind of Justice scritta da Carl Wessler per i disegni di Reed Crandall, apparsa nel 1954 sul n.16 di Shock SuspenStories, N.d.T.]. La mia opinione è che lo stupro non esistesse nei fumetti di quel periodo, tranne per l'eventualità, occasionalmente consentita, in cui avvenisse “fuori vignetta” come quando una ballerina di una taverna poteva venir spinta a letto da un barbaro muscoloso, le sue labbra dicono “no” ma i suoi occhi dicono “sì”. A parte questo, nei fumetti mainstream del periodo non esisteva alcun tipo di sessualità che potesse venire mostrata, con i fumetti underground che erano caduti in disgrazia nella decade precedente.
Sono curioso di sapere cosa avrebbe fatto in quelle circostanze un qualunque dedicato e coscienzioso scrittore moderno. Quali conclusioni i commentatori odierni avrebbero potuto trarre in quelle circostanze? Quali opzioni erano percorribili per gli autori di quel periodo? È piuttosto ovvio che l'opzione più sicura e comoda sarebbe stata quella di sottostare al censorio status quo e semplicemente non fare alcun riferimento a temi sessuali, neppure indirettamente.
Infatti, per quel che ricordo, questa è esattamente l'opzione che al tempo la maggior parte dei fumettisti miei contemporanei presero dal momento che erano comprensibilmente riluttanti a contrariare i loro editor e così facendo mettere a rischio la possibilità di lavoro futuro. A me comunque sembrava che se il fumetto non fosse stato in grado di trattare argomenti adulti - e con questo mi riferivo a temi molto più rilevanti di quelli sessuali – allora non avrebbe mai potuto progredire e diventare un mezzo artistico serio e accettato e non avrebbe mai potuto essere nulla di più di un nostalgico hobby per teenager che invecchiano. Per il mio modo di pensare, essendo il mio cervello l'unico a cui potevo accedere, un mezzo con incredibili potenzialità come il fumetto meritava molto di più. Così insieme ad argomenti politici e sociali, ho deciso di includere temi sessuali nelle mie storie.
Come ho detto, la maggior parte dei miei scritti sull'argomento hanno riguardato manifestazioni gioiose della sessualità, con un livello di eterogeneità pari alle mie capacità del tempo. A meno che qualcuno non stia dicendo che i fumetti non sono adatti a parlare di tematiche sessuali, non penso che possano dissentire più di tanto con le mie affermazioni. Per cui è forse la successiva decisione che ho preso in cui risiede la mia colpa: ho pensato che anche la violenza sessuale, incluso lo stupro e gli abusi domestici, dovessero comparire nei miei lavori qualora fosse stato necessario o appropriato per una specifica storia, l'alternativa avrebbe implicato che queste cose non esistessero o non stessero accadendo. Così facendo, considerando la frequenza di simili eventi, avrebbe significato negare un olocausto sessuale che si ripropone annualmente. Personalmente non potevo, in coscienza, realizzare delle opere con quelle limitazioni senza, per lo meno, tentare di modificarle o rimuoverle. Presumibilmente, i miei attuali critici avrebbero agito diversamente, e comunque, per quel che ricordo, molti autori di fumetti trovavano semplicemente più conveniente non parlare di sesso o di sessualità e, per dirla tutta, anche di temi razziali, politici, sull’identità di genere e qualsiasi altro che avesse rilevanza sociale.
Riguardo se mi sia o meno preoccupato di alienarmi una parte dei miei lettori trattando gli argomenti sopra menzionati, perché avrei dovuto preoccuparmi di alienarmi parte dei potenziali lettori a causa di un tema etico su cui avevo già riflettuto a lungo fino a giungere a quella che ritenevo essere un’opinione ben ponderata?
È ovvio che le uniche ragioni per cui un individuo dovrebbe preoccuparsi in simili circostanze, e presumibilmente sono le stesse che la maggior parte degli autori di fumetti professionisti di quel periodo scelsero per non rischiare di suscitare alcuna controversia con i loro lavori fintanto che il tema non veniva sdoganato ed era sicuro e lucrativo anche per loro fare altrettanto, sarebbero di natura economica e di avanzamento di carriera? Ma forse si potrebbe pensare che dilungandomi così tanto nel proporre un contesto - mi è stato detto che dare un contesto in questo tipo di discussioni non è necessariamente ben accetto - stia cercando di sfuggire alla questione centrale che, presumibilmente, è perché io, essendo un uomo, mi dovrei sentire privilegiato nel trattare nei miei lavori questi temi. Come può una persona che, stante le informazioni in possesso del lettore, non ha mai subito alcuno stupro o altra forma di abuso sessuale, essere qualificato in maniera plausibile per trattare nelle sue opere queste tematiche?
Spero che i lettori capiranno che sarò tutto tranne che superficiale quanto affermo che, finora, non sono neppure mai stato ucciso. Di sicuro ho conosciuto delle persone che sono state assassinate e le loro famiglie, e allo stesso modo ho incontrato assassini e le loro famiglie.
Sebbene non possa dire se questo mi dia titoli per parlare o meno d'omicidio, sono piuttosto convinto che mi abbia fornito un punto di vista più consapevole e compassionevole sull'argomento che altrimenti non avrei avuto e, presumo, sia una buona cosa per uno scrittore. Lo stesso dicasi riguardo al tema della violenza sessuale.
Sebbene personalmente abbia subito solo un tentativo di rapimento quando avevo più o meno sei anni e delle piccole molestie dal preside pedofilo delle scuole primarie come quasi tutti gli altri bambini del mio anno, ho conosciuto un angosciante numero di donne, includendo donne a me vicine o che lo sono state, che sono state stuprate, aggredite sessualmente o hanno subito violenza sessuale. In realtà, se ci penso, ho avuto molti più contatti con persone che hanno sofferto a causa delle conseguenze di abusi sessuali rispetto a quelli con persone assassinate o che hanno visto la loro vita devastata a causa di un omicidio.
Nel caso ritenessimo che questa fosse una mia personale sensazione o forse un'anomalia in una statistica fortemente limitata, vorrei citare i dati menzionati nella mia più recente copia di Inside Time, il giornale distribuito nelle carceri (e, al momento, la forte di informazioni più facile da consultare per una persona senza una connessione Internet). Da quello che capisco, lo scorso anno in Gran Bretagna ci sono stati 60 mila stupri. Suppongo che si tratti di stupri denunciati e che i casi di stupro verificatisi siano, probabilmente, due o tre volte superiori. Ci sono stati oltre 400 mila casi di aggressioni a sfondo sessuale e, dato francamente raccapricciante, un milione e 200 mila casi di abusi domestici. Lasciando da parte i dati sulle aggressioni e gli abusi e concentrandomi solo sugli stupri - che, ovviamente, sono la mia “specialità”... dovrei dire che non ho citato i 60 mila omicidi accaduti l'anno scorso in Inghilterra, probabilmente perché... beh, non ci sono stati, no? Tranne che nelle pagine della fiction, in cui tenderei a credere che ci siano state un numero considerevolmente superiore di morti violente rispetto alla cifra menzionata sopra. Sembrerebbe che nel mondo reale, in cui la stragrande maggioranza delle persone sono costrette a vivere, ci siano relativamente meno omicidi rispetto allo sconvolgente numero di stupri e altri crimini sessuali o di atti di violenza legati al sesso, e tutto ciò è l'esatto contrario di come il mondo viene rappresentato nei film, negli show televisivi, nella letteratura e nei fumetti. Perdonatemi se c'è qualcosa di palesemente ovvio che mi sta sfuggendo, una qualche falla nel mio ragionamento che non riesco a vedere, ma per quale motivo ci dovrebbe essere una così marcata differenza? Perché l'omicidio è così sovra-rappresentato nella fiction popolare e i crimini di natura sessuale così poco presenti? Di sicuro non può essere perché si tratti di qualcosa di peggiore dell'omicidio e per questo debba meritare uno status speciale ed essere innominabile.
Di sicuro le ultime persone a suggerire che lo stupro fosse peggiore dell'omicidio furono le classi educate con grande sensibilità dell'epoca Vittoriana. In realtà, le autentiche vittime di stupro che ho conosciuto e con cui ho parlato non sembrano molto colpite dall'idea di “un destino peggiore della morte”. La maggior parte sembrano pensare che, per quanto quello che hanno passato sia stato inconcepibilmente orribile, almeno non sono state uccise, anche se sono state minacciate in tal senso dai loro aggressori.
Eppure, sebbene sia perfettamente accettabile (per non dire quasi obbligatorio) rappresentare fatti violenti e mortali in sgargiante e auto-compiaciuta alta definizione, questo approccio è in qualche modo considerato sano e perfettamente normale mentre la rappresentazione di crimini sessuali attrarrà inevitabilmente proteste come quelle di cui stiamo discutiamo.
Ancora una volta, se nessuno argomenta in modo convincente che lo stupro è un evento umano molto più serio della concreta conclusione violenta di una vita nella sua interezza, allora perché dovrebbe essere considerato in questo modo? Perché la violenza sessuale dovrebbe essere separata da tutto il resto quando forme di violenza altrettanto devastanti sono trattate come forme di intrattenimento? Se posso azzardare una risposta alla mia domanda, forse è perché il termine “violenza sessuale” contiene la parola “sessuale”, una parola collegata ad argomenti tradizionalmente non discussi nella società perbene? Come ho affermato prima, trent'anni fa lo stupro e la violenza sessuale erano tabù nel fumetto. Ora, Dio benedica chiunque pensi che questo fosse dovuto al fatto che gli editor del fumetto di trent'anni fa erano più sensibili sulla possibilità di turbare i sentimenti delle lettrici rispetto ai loro equivalenti contemporanei, ma sono spiacente perché non è così. I riferimenti a qualsiasi forma di attività sessuale, positiva o negativa, erano proibiti e la ragione è che, sin dall'epoca Vittoriana, il sesso è stato considerato volgare e sporco dalla classe borghese. Indubbiamente, il riconosciuto controllo sessuale esercitato da quella classe era uno degli elementi principali con cui si distinguevano rispetto alle esigenze più animalistiche presenti nelle comunità di livello inferiore e in quelle degli immigranti. Non sto cercando di sembrare falso, ma davvero non riesco a vedere nessuna ragione perché si debba privilegiare la violenza letale non sessuale rispetto a quella sessuale, se non per un residuo di imbarazzo borghese o di eccessiva ritrosia su tutti gli argomenti che riguardano il sesso, che in questo caso si è accollato la colorazione difensiva di una fascinazione piuttosto ipocrita verso la politica sessuale contemporanea. Né posso vedere alcuna ragione, irresistibile o meritevole, per cui io, o qualsiasi altro scrittore, dovrei trattenermi dall'affrontare qualunque argomento ritenuto degno di essere affrontato, se si ha il coraggio di occuparsi di quelle tematiche di fronte alla possibile sanzione e perdita dei mezzi di sostentamento che potrebbe comportare. Fortunatamente per coloro che la pensano diversamente da me, questo è uno dei vari tratti che pochissimi scrittori moderni commerciali sembrano possedere. Spero, prima di concedermi una risposta più personale a queste cose, di aver risposto con sufficiente chiarezza e onestà a tutti i quesiti sollevati per evitare di dovermi ripetere o ri-ripetermi in futuro. Mi scuso per la lunghezza della mia risposta ma chiaramente questi sono argomenti importanti a cui ho rivolto in modo evidente la mia attenzione negli ultimi tre-quattro decenni. Per quanto alcune persone possano trovarlo sorprendente, ho riflettuto molto su questi argomenti durante quel periodo. Forse, sebbene non possa esserne certo, più di quanto loro stessi abbiano fatto nel fermento delle loro reazioni, forse sconsiderate, a questa controversia che in un certo senso è stata costruita. Comunque, almeno la mia lunga tirata può far comprendere al lettore casuale quanto abbia trovato noioso, faticoso e irrilevante questo episodio. Spero proprio sia così.

Adesso:

Sebbene comprenda che questi scambi sono intesi per essere, nel loro insieme, comunicazioni unidirezionali, mi dispiace che non mi siano state spiegate in modo soddisfacente le motivazioni, per cui intendo ignorare questa convenzione. In modo analogo, intendo immaginare che la critica morale e la congettura come causa non siano la prerogativa esclusiva di una delle parti di questa discussione. Se questa supposizione è sbagliata, o è vista in qualche modo come una infrazione alle consuetudini o al protocollo, allora spero che questo sarà caritatevolmente attribuito alle molte deficienze della mia età, del mio retroterra o, plausibilmente, della mia educazione.

Poiché comprendo che le varie preoccupazioni citate prima sono emerse in gran parte a causa della mia presenza al lancio della recente biografia scritta da Lance Parkin, potrebbe essere necessario spendere qualche parola sui retroscena di questo avvenimento, almeno dalla mia prospettiva personale. Quando Lance mi contattò un paio di anni fa e mi disse che gli era stato commissionato il libro, mi domandò se mi sarebbe piaciuto farne una biografia ufficiale, un'offerta generosa che rifiutai. In parte perché sentivo che c'erano stati molti libri su di me e non volevo apparire egocentrico collaborando attivamente a un altro, qualunque fossero i suoi pregi. Ho anche detto a Lance che per me le biografie non ufficiali sono generalmente molto più sincere e significative, e suggerii che procedesse con il libro su quel fondamento, con la promessa che i miei amici e la mia famiglia non venissero intervistati perché forse avevano già sofferto a sufficienza.
Naturalmente questo lasciava Lance solo con una manciata di persone che non erano in nessuna di queste categorie. Nonostante questo ostacolo, quando alla fine ho letto una copia delle bozze di Magic Words, mi è sembrato che avesse fatto un lavoro ottimo e imparziale, contestualizzando, per quello che gli era possibile, le informazioni e poi lasciando tirare al lettore le proprie conclusioni su alcune delle affermazioni più notevoli fatte su di me e il mio lavoro. Non avendo dato tanta attenzione alle esternazioni del mondo del fumetto per diversi decenni, c'erano ovviamente molte affermazioni di ex collaboratori che mi stupirono e che mi sembrava si fondassero in molti casi sulla distorsione, se non addirittura sull’indiscriminata invenzione, dei fatti. C'erano anche, come sai, numerose affermazioni di Grant Morrison (una persona che ho incontrato e con cui ho parlato una volta sola e con cui da allora ho cercato di fare del mio meglio per evitarne il contatto), compresa quella, senz'altro fatta in buona fede, per cui sembra ci sia uno stupro in tutte le serie a fumetti che ho scritto. Immagino che questo possa avere a che fare con alcuni degli argomenti piuttosto importanti che sono stati degradati e usati come munizioni in questa, probabilmente non rara, “polemica” online.
Se affermazioni come quella di prima sono ovviamente l'equivalente di ricevere per posta uno stronzo impacchettato come un regalo, poiché sembra che Grant Morrison in questi anni abbia speso più tempo a discutere di me e delle mie opere che delle sue, non le ritengo, a questo punto, completamente inaspettate. Nonostante questi pochi brani piuttosto deprimenti, ritengo che Lance e i tipi della Aurum Books abbiano davvero lavorato duramente e abbiano prodotto un'ottima biografia, soprattutto per quelle fonti sgradevoli a cui sono stati costretti a ricorrere a causa della clausola “niente amici”. Quando sono stato invitato per il lancio del libro, nonostante il fatto che in questo periodo di solito cerco di evitare le apparizioni pubbliche per concentrarmi sul lavoro, ho pensato che sarebbe stato un ottimo modo di dimostrare a Lance e alla Aurum quanto avessi apprezzato quello che avevano fatto.
Quando Melinda [Gebbie, fumettista e moglie di Alan Moore, N.d.T] e io siamo arrivati sul posto e ho avuto il piacere di incontrare Lance per la prima volta, mi ha colto alla sprovvista parlando dell'attuale tempesta di commenti arrabbiati che si era formata in quel momento su internet, per le osservazioni che avevo fatto nell'intervista a un giornale. Non avendo molto interesse per i commenti online, per me era una novità e all'inizio non fui in grado di capire quale fosse l'intervista in cui avevo fatto questa affermazione apparentemente incendiaria. Quando mi dissero che era apparsa sul Guardian del sabato precedente, continuavo a non essere in grado di ricordare di averla fatta. Venne fuori che in realtà avevo rilasciato l'intervista un paio di mesi prima, in un pomeriggio in cui ero impegnatissimo e avevo fatto una mezza dozzina di brevi interviste con la stampa per il lancio di Fashion Beast. L'argomento dei film legati al fumetto (o i fumetti legati ai film) era stato comprensibilmente sollevato e, a quella domanda, avevo azzardato la mia sincera opinione per cui trovavo preoccupante il fatto che il pubblico dei film di supereroi fosse composto quasi esclusivamente da adulti, uomini e donne tra i trenta e i cinquant'anni, che facevano la coda con entusiasmo per guardare personaggi e situazioni che erano state chiaramente creati per divertire i dodicenni di cinquant'anni prima. Non solo lo ritengo un argomento valido, ma credo sia piuttosto ovvio a qualsiasi osservatore disinteressato. Per me, l’accettazione di personaggi che quando vennero creati, nella metà del XX secolo, erano rivolti senza alcun dubbio ai bambini, sembra indicare una ritirata dalla soverchiante complessità, bisogna ammetterlo, dell'esistenza moderna. Mi sembra proprio che una parte significativa del pubblico, avendo rinunciato a cercare di capire la realtà in cui vive, si sia invece convinta che almeno è in grado di comprendere i dilaganti universi senza senso, ma che sono almeno ben delimitati, presentati dalla DC o dalla Marvel Comics. Vorrei anche osservare che è potenzialmente e culturalmente catastrofico avere cimeli del secolo precedente che occupano in maniera abusiva e possessiva il palcoscenico culturale e rifiutano di permettere a quest’epoca, di certo senza precedenti, di sviluppare una cultura propria, pertinente e adeguata al proprio momento storico. Erano questi i miei pensieri sull'argomento, e ricordo che Lance disse di volermi fare una domanda a riguardo durante l'intervista, per darmi l'opportunità di chiarire le mie osservazioni, cosa su cui fui d'accordo (non avevo ancora compreso che la pubblicazione in ritardo della mia intervista sul Guardian cadeva, forse casualmente, nello stesso giorno del tanto pubblicizzato anniversario di Dr. Who – un altro fenomeno che avevo trascurato completamente – durante il quale molte persone tra i trenta e i cinquant'anni si sarebbero divertite con personaggi e situazioni che erano stati creati per divertire... ehm... i dodicenni di cinquant'anni prima. Non stavo pensando a Dr. Who quando avevo fatto originariamente il mio commento, ma immagino che il tempismo dell'intervista potrebbe averlo fatto sembrare come se l’avessi detto apposta, e comunque le mie opinioni erano probabilmente applicabili a Dr. Who come al film degli Avengers, che stavo effettivamente discutendo. Forse sarebbero state egualmente impopolari e sgradite in qualsiasi caso).
La serata andò avanti e devo ammettere che avevo l'impressione che il pubblico, un ampio spettro di etnie e sessualità con una ben accetta - e al giorno d’oggi piacevole - distribuzione quasi paritaria dei generi, si stesse divertendo quanto i partecipanti. Perfino quando Lance mi chiese di ripetere i miei commenti, forse polemici, riguardo l'apparente sospensione emotiva e intellettuale del pubblico del cinema moderno, non ho avuto l'impressione di reazioni rumorose da parte del pubblico, positive o negative che fossero. Lo stesso pubblico sembrava avere generalmente gradito o almeno essersi interessato a Act of Faith e Jimmy’s End, e dato che questi due corti erano stati disponibili gratuitamente su YouTube per un bel po' di tempo, devo ammettere che né io né Mitch [Jenkins, N.d.T.] (né Siobhan [Hewlett, N.d.T.], Bob [Robert Goodman, N.d.T.] o Melinda) ci stavamo aspettando una reazione estrema. Francamente, eravamo solo grati a quei membri del pubblico che erano rimasti pazientemente seduti a guardare due corti non proprio piacevoli e che forse avevano pure già visto.
Da quello che comprendo del corso degli eventi che si sono svolti dopo il lancio, c'era una persona nel pubblico, il cui nome mi sfugge ma a cui evidentemente piace etichettarsi come uno studioso di Batman, che si era sentito offeso da Act of Faith e, forse come le persone in questo genere di studi fanno, aveva pubblicizzato questo fatto sui social media. In un messaggio che mi venne mostrato, le sue obiezioni alla pellicola divennero più ovvie quando la descrisse riassumendola così: un film su una donna che indossa “abiti da troia” e che poi si suicida. Senza desiderare elaborare l'ovvio, temo che questo signore possa aver compreso questo film troppo velocemente. Perché dovesse farlo è una domanda su cui ho riflettuto, soprattutto recentemente. Per coloro che hanno avuto difficoltà a interpretare il filmato di quindici minuti, e senza volerlo rovinare a quelli che non l'hanno ancora visto, la trama base di Act of Faith è la seguente: osserviamo una giovane donna, la Faith del titolo, che torna a casa dopo una giornata di lavoro come giornalista e risponde a una serie di messaggi telefonici in segreteria, che delineano sinteticamente alcuni dettagli della vita e della condizione della protagonista. La vediamo chiamare un negozio di costumi in affitto e chiedere se qualcuno avesse ritirato il costume da paramedico che probabilmente aveva prenotato prima, e le rispondono che un giovane aveva effettivamente fatto un salto per ritirare il travestimento richiesto. Poi lei si cambia e indossa un vestito che noi – compresa l'attrice Siobhan Hewlett che interpreta il personaggio – immaginiamo debba suggerire un tentativo vagamente patetico e sbagliato di erotismo torrido. La ragazza chiama un uomo che risponde al telefono e gli domanda in modo pratico: «Pronto. Chad Bailey?», prima che gli venga chiesto dalla giovane interlocutrice se sta parlando con «i paramedici», dopodiché lui abbassa la voce, adotta un tono più rauco ed eccitato e conferma che «sì, sono i paramedici» a rispondere. A questo punto Faith inizia un racconto palesemente finto di come lei sia una giovane donna che vive da sola e che vuole uccidersi. Inizia anche goffamente, si potrebbe pensare, un’inutile descrizione degli “abiti da troia” che indossa in preparazione di questo apparente atto terminale; le “calze e tutto il resto”. Una volta finito, riattacca e inizia una serie di azioni rituali chiaramente già provate: toglie delle manette da un sacchetto di plastica, appallottola il sacchetto di plastica e se lo mette in bocca, e alla fine mette un cappio, chiaramente preparato, attorno al collo che ha l'altro capo attaccato al bastone del suo armadio. Assicurandosi le manette dietro la schiena, si abbassa gradualmente fino all'estensione completa della corda e vediamo dalla sua espressione che sembra essere in uno stato di eccitazione. Questa espressione cambia bruscamente quando la segreteria telefonica riceve un altro messaggio. Proviene dallo stesso giovane con cui aveva parlato prima, solo che ora lui sembra senza fiato e spaventato, e inizia il suo messaggio con parole di questo tenore: «Se non hai ancora iniziato, non farlo». Continua dicendole che c'è stato un incidente e che la sua auto non va. Le assicura che sta correndo da lei il più velocemente possibile e le dice che lei dovrebbe «resistere», modificando questa frase, dopo averci pensato un attimo, in un «Cioè, non preoccuparti». A questo punto la giovane, comprensibilmente, appare davvero preoccupata. C'è una dissolvenza in nero del telefono, ora muto, mentre la canzone sul suo lettore CD suona fino alla fine. Questa è la conclusione del film (o del trailer insolitamente di alta qualità, come l'avevamo pensato originariamente), sebbene una comoda didascalia alla fine del corto annunci che il film Jimmy’s End sarebbe seguito a breve. Pensavamo che questo avrebbe suggerito agli spettatori che avevano perso tutti i numerosi riferimenti sotterranei o insoluti nel film che Act of Faith era una parte, un episodio autoconclusivo di una narrazione decisamente più lunga, più ampia e più complessa.
Eppure viene descritto, apparentemente in buona fede, come un film su una giovane donna che indossa “abiti da troia” e poi si uccide. Devo ritenere che la persona che si è sentita realmente offesa non ha coscienza o non ha riconosciuto quello che la maggior parte delle persone che guardano il film hanno correttamente capito: un gioco sessuale pericoloso che finisce molto male. Probabilmente non ha riconosciuto il goffo e stereotipato dialogo a sfondo sessuale dei “paramedici” e il maldestro role-playing che doveva essere fatto, o forse i concetti di asfissia auto-erotica e di role-playing sessuale gli sono completamente sconosciuti. Se è così, allora devo informarlo che, per quanto ne so, questi sono due fenomeni ben conosciuti, almeno nel mondo che esiste oltre i confini della sua area principale di studio... anche se sono sicuro che l'idea di qualcuno che indossi un costume per ragioni che sono tutto tranne che trasparenti e forse non sane non dovrebbe essere compresa da uno studioso di Batman? Non vorrei suggerire che gli standard dello studio del campo prescelto da questa persona sono così lassisti che lui semplicemente non si è preoccupato di prestare attenzione al film prima di iniziare a trasmettere la sua opinione costruita piuttosto frettolosamente, e sembrerebbe impertinente perfino insinuare che forse qualcuno più abituato ai supereroi potrebbe avere delle difficoltà a estrapolare il significato da una scena moralmente complicata a cui manca la presenza di didascalie che gli spieghi esattamente che cosa sta succedendo, senza nessuna confusa ambiguità. Non penso che esista un campo di competenza dove un tale atteggiamento verrebbe riconosciuto come adeguato per uno studioso, o almeno spererei sinceramente di no. Se non posso dire che questa persona è ottusa fino al punto di raggiungere l’autentica stupidità, o che la comprensione del film gli era impedita a causa di una educazione sospettosamente protetta, allora non so che cosa dire quando si tratta di spiegare le sue azioni e il suo comportamento.
Questo, naturalmente, se la sua indignazione era realmente rivolta a Act of Faith e se la sua incomprensione del film era genuina piuttosto che volontariamente costruita. Come ho osservato in precedenza, sono stato informato soltanto quando sono arrivato alla presentazione della risposta irata della comunità online di fan di supereroi riguardo i miei commenti contenuti nell'intervista del Guardian di quattro giorni prima che non avevo idea fosse stata pubblicata. Lance riprese l'argomento durante l’incontro per il lancio del libro e, per la maggior parte del pubblico, la questione non sembrava essere eccessivamente controversa. Non posso fare a meno di domandarmi, naturalmente, se qualcuno che ha fatto del proprio continuo interesse per Batman una parte così centrale della propria vita adulta si sarebbe potuto non offendere o sentirsi personalmente offeso dal mio suggerimento che la devozione di massa delle persone di mezza età per le figure dei supereroi potrebbe essere un indicatore culturale del loro arresto intellettuale e/o emotivo. Parlando semplicemente da un punto di vista ipotetico, se si era così offeso, a che punto di reazione potrebbero arrivare gli sfoghi di una persona del genere? Non sarebbe sicuramente sufficiente twittare qualcosa tipo: «Alan Moore pensa che gli appassionati adulti di supereroi sono forse emotivamente bloccati e io, come studioso di Batman, sono fortemente in disaccordo con lui», anche se questo potrebbe essere alla fine la somma totale della verità. È impensabile che una tale persona possa tentare di lenire i propri sentimenti feriti facendo finta che in realtà è arrabbiato per altri motivi, come la violenza sessuale o la misoginia, che sono argomenti davvero importanti e che ci si aspetterebbe sollevino più condanna di un affronto al tuo immaginario vigilante mascherato preferito?
Spero sinceramente che non sia così e di avere frainteso sul serio le motivazioni di questa persona, come lui ha frainteso le mie. Spero sinceramente che sia semplicemente un povero studioso il cui limitato campo di indagine l'ha reso incapace di comprendere le situazioni adulte, o almeno quelle che non coinvolgano un combattente del crimine decisamente semplicistico, spinto dalla vendetta e con la fissa dei pipistrelli. In breve, spero che sia intellettualmente pigro e socialmente limitato come sembra a me, perché la lettura alternativa, per cui ha deliberatamente scelto di nascondere il diritto al sentimento ferito dell’appassionato di fumetti ricorrendo ad accuse false su un argomento che ha un impatto devastante su milioni di donne vere, che non sono sufficientemente fortunate per essere di carta e abitare a Gotham City, sembrerebbe rasentare davvero il cattivo gusto. Soprattutto se ci fosse qualche scopo plausibile per aumentare la popolarità personale di qualcuno nell'arena senza dubbio estremamente importante dei fan di Batman, lanciando pubblicamente un attacco ad una persona che ha lavorato su un progetto di primo piano per quel personaggio ottuso e noiosamente arrabbiato, quantunque in una delle opere della sua carriera personalmente meno interessanti e di cui si pente maggiormente.

Potrei aggiungere che queste accuse molto serie, anche se originate più dal disprezzo che da una condanna, sono il risultato dello schieramento di alcune persone davvero importanti contro quelle che erano, relativamente parlando, alcune delle miei opinioni meno ostili sui supereroi. Se avessi continuato a dire, come ho fatto in altre occasioni, che i supereroi moderni sembrano funzionare principalmente come compensatori da codardi per i numerosi autori e lettori contrari al conflitto, o che si può far discendere l'origine di mantelli e maschere come accessori di onnipresenti supereroi da un'attenta visione di Nascita di una nazione di D.W. Griffith, allora non oso pensare alle accuse che avrei potuto ricevere.

Considerato che ho sentito parlare di questi contrattempi costruiti ad arte solo come discorsi riportati, mi perdonerai se rimango incerto sull'ordine preciso degli eventi dopo che il nostro studioso di Batman aveva aizzato il suo eccitabile pubblico, che fosse composto realmente da persone nell'età della scuola dell'obbligo oppure solo da giovani dentro, in quella che posso supporre fosse una frenesia che si diffondeva in un mondo leggermente asfittico composto di stanzette sul retro interconnesse tra loro. Non sono certo del momento in cui la persona che apparentemente è una fotografa americana si è unita al dibattito, e di nuovo devo scusarmi per non conoscere il suo nome. L'unica cosa che avevo sentito in precedenza su di lei era il breve resoconto di Kevin su qualcuno che aveva incontrato in America a una session di firme per il Black Dossier, una donna afroamericana (se questo è un termine statunitense ancora accettabile) che era sembrata arrabbiata per l’inserimento di Golliwog/Galley-Wag. Per quello che ricordo del racconto di Kevin, lui aveva fatto del suo meglio per dare una spiegazione, ma alla fine gli sembrava di non avere fatto un lavoro adeguato, e che la donna non era sembrata interessata al suo resoconto sulla creazione originale di Florence Upton o del modo in cui eravamo arrivati alla nostra decisione. Per quel che vale, Kevin era sinceramente preoccupato, al punto che parlammo per un po' di questa persona, tra i tanti individui incontrati nel tour, che aveva espresso un'opinione negativa sul personaggio. Comunque, il fatto che Kevin avesse fatto del suo meglio per fornire una spiegazione onesta durante un faccia a faccia (in qualche modo più di quello che era stato permesso alla maggior parte dei normali lettori del libro) e avesse apparentemente fallito, suggerì che c’era ben poco da fare. Piuttosto che risolvere la questione diventando più espliciti e rivelando maggiormente le origini del personaggio nelle future uscite, sperando di rendere le nostre motivazioni più chiare senza che i nostri lettori abituali pensino che stiamo insolitamente evidenziando ogni cosa, non potremmo davvero fare nient’altro se non continuare con il nostro lavoro. A meno che qualcuno non suggerisca realisticamente di eliminare il personaggio dalla nostra continuity dopo la reazione negativa di un lettore solitario, non vedo cos'altro potremmo fare.

Ora, questa persona ha il diritto inalienabile di reagire in quel modo, e io non sto suggerendo o insinuando che la sua risposta sia stata in alcun modo “sbagliata”. Se quella è stata la sua lettura della storia, allora lei è pienamente titolata a mantenere la sua opinione. Spererei, nella mia prolissa risposta alla prima serie di domande della tua lista, di essere riuscito forse a placare alcuni dei suoi timori, sebbene la mia sensazione è che questo sia francamente improbabile. Spero almeno che dopo aver espresso le sue preoccupazioni ed essere stata ascoltata dal disegnatore del fumetto in un incontro personale, e ora che queste argomentazioni sono state discusse al meglio delle sue capacità anche dallo sceneggiatore, accetterà almeno il fatto che ci si è occupati delle sue ansie con un grado di analisi che è di gran lunga superiore a quello che la maggior parte dei lettori potrebbero o dovrebbero ragionevolmente aspettarsi. Sottolineerei che se chiunque è autorizzato ad avere la propria opinione informata, questa è la massima estensione del loro diritto.

Forse perché sto scrivendo alla vigilia di Natale mi sento disposto, nonostante il lungo intervallo trascorso tra la prima esternazione delle lamentele di questa persona e la ricezione, da parte nostra, di sue ulteriori notizie, a prendere per vera la sua posizione. Prescindendo dal colore o dall’etnicità, posso ben immaginare come faccia giustamente arrabbiare la rappresentazione dei personaggi non-bianchi nel fumetto contemporaneo, o il numero relativamente basso di disegnatori o sceneggiatori di colore confrontati con il numero di lettori non-bianchi. Semplicemente penso... e questa è solo la mia opinione personale, in nessun caso migliore rispetto a quella della donna... che in questo caso quell'ira sia rivolta nella direzione sbagliata. Quello che comprendo dalle domande che mi vengono poste è che il punto principale della controversia sembra essere il quesito se degli autori bianchi possano spingersi a presentare del materiale potenzialmente controverso relativo a personaggi neri. L'ho posta in modo più dettagliato in precedenza, ma vorrei solo aggiungere che se avessi adottato questo atteggiamento nel 1999-2000, c'è una forte probabilità, di certo imbarazzante, che gli Stati Uniti sarebbero da quasi un decennio e mezzo nel XXI secolo senza nessuno esempio positivo di matrimoni misti con discendenti di razza mista nei propri media. Sicuramente non nei comic book (qui mi riferisco, casualmente, a Tom Strong, che sembra anche essersi distinto per il fatto che è l’unica serie all’interno della mia opera in cui sono riuscito in qualche modo a trattenermi dal rappresentare atti di violenza sessuale contro le donne).
Illustrazione di Nicolò Pellizzon.
Passando a qualcuno di cui riconosco il nome e con cui ho parlato almeno una volta al telefono in un'occasione isolata, che non si è mai più ripetuta, noto che una delle voci più rumorose in questa discussione al confine della seduta terapeutica è la presunta giornalista Laura Sneddon. L'ho incontrata quando il mio editore Tony Bennett [fondatore della casa editrice Knockabout Comics, e co-editore della Lega, N.d.T.] stava organizzando un numero limitato (su mia richiesta) di interviste con i media mainstream più che con quelli collegati al fumetto (anche qui, su mia richiesta) per l’imminente pubblicazione de La Lega degli straordinari gentlemen: 2009, la terza e ultima parte di Century. Tony mi disse che sembrava una persona seria e mi avrebbe intervistato per l’Independent, che all’epoca era un quotidiano per cui nutrivo un certo rispetto, e mi spiegò che era tra i pochi ad aveva ricevuto la copia-saggio di 2009, a patto di mantenere la riservatezza, in modo che potesse azzardare delle domande fondate durante l'intervista, cosa su cui mi trovai d’accordo.
L’intervista si rivelò essere abbastanza di routine e passò senza incidenti o domande memorabili. L'avevo comprensibilmente dimenticata fino, penso, alla session di firme che avevamo programmato per accompagnare il lancio del libro. In quel periodo venni a sapere che in un'edizione dell'Independent, pubblicato circa una settimana prima dell’uscita del fumetto, Laura Sneddon aveva raccontato allegramente tutti i principali sviluppi della storia e i finali, compresa la morte di Allan Quatermain e l'identità del “Figlio della Luna”, cioè la figura dell'Anticristo attorno a cui avevamo accuratamente costruito dei riferimenti per più di quattro anni lavorando al terzo (e più lungo) volume della Lega. Oltre all'apparente presupposto di ms. Sneddon che lei e il quotidiano che rappresentava per qualche ragione erano esentati dal contratto di riservatezza che probabilmente altri mortali inferiori non avevano evidente difficoltà a rispettare, lei o altri individui all'Independent avevano considerato adeguato pubblicare un articolo nella parte principale del giornale, una non-storia nello stile sensazionalistico dei tabloid, in cui si facevano animate congetture sulla probabilità che gli avvocati di J.K. Rowling prendessero provvedimenti nei confronti di un libro in cui nessuno dei nomi o delle sembianze dei suoi personaggi o istituzioni erano stati menzionati. Sembrava proprio un tentativo da parte dell'Independent di provocare l'altamente improbabile situazione che il loro articolo aveva immaginato, forse nella speranza di riempire un'altra mezza pagina o giù di lì con un articolo sensazionalistico in cui potevano usare liberamente le parole “Harry Potter”. Puoi naturalmente comprendere la loro posizione. Voglio dire, non è che ci fossero delle cose veramente importanti che accadevano nel Paese o nel mondo in quel momento, no?
Come chiunque dotato di un'intelligenza seppur elementare avrebbe potuto prevedere, non ci fu alcuna reazione in quel senso tranne Tony Bennett (che aveva organizzato l'intervista in buona fede) che contattò Laura Sneddon e la informò che né lui né gli autori del libro desideravano avere a che fare con lei in futuro. Quando qualcuno ha apparentemente fatto del suo meglio per sabotare un progetto importante, che sia per malignità o per un grado di stupidità francamente incredibile, non riesco a vedere come ci si possa aspettare da un editore professionista o da autori professionisti qualcosa di diverso. Certo non considero il fatto di aver semplicemente eliminato il contatto, considerate le sue azioni attivamente disoneste, come un atto severo. Ms. Sneddon, sembra, non fu d'accordo. Ci fu un'ondata di comunicazioni piuttosto spaventate in cui lei insisteva nel dire che in realtà stava cercando di aiutarci rivelando la conclusione di una storia serializzata per quattro o cinque anni, e cercando a quanto pare di coinvolgere la nostra opera in una vertenza legale completamente falsa. Questo aiuto, è inutile che lo dica, non era richiesto e non era apprezzato. Mi riterrai cinico forse, ma a me sembrò un tentativo oltraggiosamente goffo per non aver onorato un'importante questione di fiducia e responsabilità e, allo stesso tempo, per cercare di mantenere in qualche modo degli importanti contatti nei media che sarebbero potuto risultare utili nel successivo avanzamento della sua carriera. A voler essere giusti con ms. Sneddon, noi parti offese riconoscemmo subito che non poteva essere ritenuta l’unica responsabile della situazione, e che come minimo anche gli standard di integrità giornalistica dell'Independent lasciavano alquanto a desiderare. In un tentativo di imparzialità, decidemmo di rinunciare a qualsiasi ulteriore contatto con il quotidiano nella sua interezza ed è lì, penso non irragionevolmente, che tutto si sarebbe dovuto concludere se non fosse stato per gli attuali tentativi (finora coronati di successo) di Laura Sneddon di portarsi alla mia attenzione.

A dire il vero, questo non è completamente esatto. Mentre discutevo le ultime notizie di rilievo sulla mia continua presenza nel campo del fumetto e argomentavo con mia moglie l'attuale percezione di me come un razzista fissato con lo stupro (e lasciamelo ripetere per sottolineare la serietà di quello che sto cercando di spiegare: CON - MIA - MOGLIE), Melinda confusamente e in modo incerto ricordò un avvenimento che era apparentemente accaduto alcuni mesi prima, ma che in precedenza le era sembrato di scarsissimo rilievo per tornarle in mente o per citarlo. Era andata a Edimburgo come ospite del Festival Letterario, rendendosi conto solo all'ultimo che avrebbe preso parte a una sottosezione collegata al fumetto dell'evento principale, e si ricordò vagamente che si era ritirata nella sua camera d'albergo per evitare il più possibile la sorpresa (che aveva avuto) della convention del fumetto, poiché pensava di poter gestire quella ritirata in modo diplomatico senza offendere nessuno.

Sebbene leggermente alterata per la sua inaspettata, e non proprio benvenuta, immersione nel mondo del fumetto (nonostante l'impeccabile trattamento cortese degli organizzatori), pensò che quello che accadde successivamente fu di venire disturbata da una telefona in camera. Rispondendo, Melinda scoprì che stava parlando con una giovane donna che, presentatasi come Laura Sneddon, sembrava pensare che Melinda potesse aver sentito parlare di lei, immaginando, forse, ci fosse stato (fino ad ora) un momento della mia reazione con Melinda dove non avessimo altro di più importante da discutere se non le macchinazioni dei giornalisti. Quando Melinda manifestò la sua mancanza di familiarità con il nome, stando a quello che dice, ms. Sneddon fece scoppiare un'altra esplosione di inverosimile auto-giustificazione rivelando che non lavorava più per l'Independent. Seguì una richiesta per un’intervista su argomenti collegati con il fumetto, che Melinda rifiutò, e poi una richiesta frettolosamente riformulata per un’intervista su delle ipotetiche tematiche femministe, da cui Melinda ne uscì con delle scuse, forse temendo che questo richiamo alla sorellanza potesse essere falso.
Alla luce della recrudescenza di ms. Sneddon in quell'evidente pantomima dell’ultimo minuto, si potrebbe pensare che questi timori non fossero privi di fondamento. Potrebbe essere che, nel suo atteggiamento quasi dolcemente impacciato in stile Miranda Hart [attrice comica britannica, N.d.T.], ms. Sneddon ancora una volta stia solo cercando di aiutare e che, ancora una volta, io stia saltando a ingiuste e assurde conclusioni riguardo le sue motivazioni, ma mi sembra che quello che probabilmente è accaduto non abbia nulla a che fare con qualunque opinione lei professi riguardo il femminismo o la violenza contro le donne. Potrebbe essere che avendo dimostrato la sua affidabilità come giornalista e avendola trovata manchevole, a causa del suo ingannevole senso del diritto per una professione - al cui interno lei, secondo la mia opinione, è palesemente incapace di comportarsi adeguatamente - si sia sentita offesa? Nel suo stupore evidentemente oltraggiato - per cui se fai dei giochi che appaiono spiacevoli ed egoistici con le persone che si sono fidate di te, allora ci possono essere delle conseguenze impreviste - penso non sia improbabile che si sia unita al formale disgusto espresso pubblicamente dal nostro studioso di Batman per Act of Faith quale modo particolarmente viscido di sistemare le cose, qualunque fosse il suo obiettivo; ancora una volta, sembrerebbe, senza nessuna evidente riflessione sulle potenziali ripercussioni (non essendo personalmente esperto di discussioni online, sto ovviamente facendo delle ipotesi, ma c'è qualcosa nella natura del dibattito su internet che incoraggia questo senso di impunità realmente sconsiderato in persone che, altrimenti, sarebbero riluttanti a scontri più immediati e diretti? Come dicevo, questo è solo una supposizione).

Dal mio punto di vista, appare come il caso di qualcuno che ha sviluppato un atteggiamento per cui giustifica completamente qualunque cosa serva per portare avanti i propri interessi personali e ritiene che solo le persone sgradevoli e belligeranti non riescano a capirlo. Avendo deciso di ignorare un contratto di riservatezza (qualcosa che non ricordo l'Independent abbia mai fatto nel caso della stessa J.K. Rowling) nella speranza di uno “scoop” inventato, ed essendo stata, in modo prevedibile, tagliata fuori dalle persone di cui aveva tradito la fiducia, sembra che successivamente abbia tentato di posizionarsi in tutto questo come la parte lesa. In alternativa potrebbe essere che, fin dal suo primo espediente per aumentare il proprio status e attrarre attenzione, abbia anche lavorato, come era stato anticipato, per fare molto male e creare disturbi offensivi, come una sorta di piano B. Di nuovo, devo dire che il ragionamento è tutt’altro che ben congegnato. Dopo l'incidente iniziale, se avesse tranquillamente accettato il nostro desiderio di non avere ulteriori contatti con lei e avesse semplicemente continuato con la sua carriera, allora non ci sarebbe stata alcuna necessità che Tony, Kevin o io sentissimo il bisogno di nominarla ancora o perfino pensare di nuovo a lei. Invece lei ha apparentemente deciso di cercare di rivestire i suoi sentimenti feriti e forse incrementare la sua cattiva fama unendosi al grido di protesta malinformato e dalle dubbie motivazioni per Act of Faith, esprimendo a sorpresa intensi risentimenti riguardo un film che, stando a quello che dice, non ha visto o su cui non aveva in precedenza mostrato interesse. Forse cercando di allargare la discussione per annoverare il campo del fumetto che lei chiaramente sente di conoscere, ha introdotto l’argomento più ampio del continuo sfoggio dello stupro che percorre la mia opera, almeno come è descritto da Grant Morrison. Di nuovo, considerati i suoi comprensibilmente forti sentimenti come donna e come presunta femminista su questo argomento realmente serio, sono sorpreso che non abbia pensato di tirarlo fuori quando mi intervistò per La Lega: 2009. In effetti, è un rompicapo la ragione per cui nessuno dei numerosi e rispettabili giornalisti, di entrambi i generi, che mi hanno intervistato nei miei circa trent'anni di carriera non abbiano posseduto il penetrante acume o la reale preoccupazione per la donna di ms. Sneddon e Grant Morrison. A meno che, naturalmente, quell'intuizione o quelle preoccupazioni siano prive di fondamento, per cui avremmo a che fare con persone con un livello di meschinità e desiderio di vendetta quasi incredibile; persone pronte a banalizzare lo stupro e l'abuso sessuale usandoli, con disinvoltura, come randelli per le loro vendette puramente personali e per favorire la propria carriera.
Indagando su quale fosse la fonte dei (secondo me) ridicolmente bassi livelli di etica personale e giornalistica della signora Sneddon, non fui sorpreso, ma anzi quasi annoiato, nello scoprire che il suo ingresso nel campo del giornalismo fosse stato raggiunto per mezzo di un'intervista al suo conterraneo (e, suppongo, collega nelle convinzioni “femministe”) Grant Morrison. Io non so e non mi interessa sapere quale sia il rapporto fra di loro, ma spero che chiunque possa comprendere come non riesca a vedere alcun motivo convincente per cui dovrei accettare di mantenere contatti con quelle che considero fonti inquinate e tossiche. A tal fine, così come per la precedente impresa della signora Sneddon che risultò nell'interruzione dei miei contatti con l'Independent, sembra che io debba estendere tale sanzione a qualsiasi altra pubblicazione o istituzione con la quale essa sia in contatto. Sicuramente, vista la mia reazione ai fatti precedenti, questa conclusione non può essere una sorpresa per nessuno. Non m'importa assolutamente nulla di questa donna, della sua finta (a mio parere) indignazione, o della sua carriera. Non credo che la mia vita ne sarà in nessun modo impoverita se non sentirò mai più parlare di lei.
Illustrazione di Glenn Fabry.
E a questo punto, credo che non ci resti altro da discutere se non la persistenza in modalità herpes dello stesso Grant Morrison.
La prima volta in cui questo nome passò brevemente per l'anticamera del mio cervello (prima di farsi rapidamente strada per le latrine) fu probabilmente in qualche momento fra gli inizi e la metà degli anni Ottanta. Se ben ricordo, ero a Glasgow per autografare dei fumetti presso AKA Books, una fumetteria locale; sebbene non ricordi esattamente di quali fumetti si trattasse. Bob e John, i proprietari, entrambi persone piacevoli e fidate, mi stavano accompagnando a cena in uno dei molti esercizi di Glasgow che servivano un buon curry (credo), e mi chiesero se un loro assiduo cliente, con l'aspirazione di diventare scrittore, potesse unirsi a noi. Poiché avevo simpatia e rispetto per entrambi, e non avevo motivo di credere che una persona con cui mantenevano rapporti potesse essere differente, accettai tranquillamente. Dopotutto mi stavano offrendo la cena, e un ospite in più non mi dava alcun problema. Certo, col senno di poi...
Al ristorante, fui presentato a Grant Morrison. Non ricordo che al tempi il suo aspetto mi avesse colpito in modo particolare. Tutto ciò che posso ricostruire dopo tanti anni è l'immagine di un uomo vestito in modo sobrio, di statura un po' bassa, con capelli curati tagliati all'altezza del collo, e nessuna caratteristica specifica a parte un generico pallore nel complesso, forse quattro o cinque anni più giovane di me all'epoca, sebbene questa differenza di età sembri essere in qualche modo aumentata da allora. Quanto alla sua conversazione, era decisamente esplicito nei complimenti per i miei lavori, ripetendomi quanto fossero d'ispirazione per lui e aggiungendo che la sua ambizione era diventare “uno scrittore di fumetti, come te.” Guardando indietro dalla mia posizione attuale, noto che potrei aver solo immaginato che ci fosse una virgola in questa frase, ma all'epoca la interpretai nel modo più ovvio. Lo ringraziai per i suoi complimenti (se ben ricordo aveva elogiato in particolar modo V for Vendetta, nonostante quel quasi-stupro nel primo episodio), lo incoraggiai nei suoi sforzi per quanto potevo non avendo visto nulla del suo lavoro, e gli dissi che avrei tenuto d'occhio le sue future produzioni. A meno di non adottarlo sul posto come mio protetto e aiutante (fuori età massima), non vedo cos'altro avrei potuto fare per un estraneo appena conosciuto, anche se può darsi che lui venisse da un retroterra culturale con maggiori aspettative, e quindi si ritenesse in qualche modo offeso dall'incontro. Certamente non ne diede segno all'epoca, ed io sto solo facendo ipotesi in base al suo (a mio parere) peculiare e inquietante comportamento.
L'occasione successiva in cui il suo nome emerse sarà stata, credo, all'epoca in cui il mio rapporto con Dez Skinn e la rivista Warrior stava entrando nella sua fase calante. Per come ricordo i fatti, Skinn mi avvicinò con un manoscritto inviato da Grant Morrison, una storia di Kid Miracleman se ben ricordo, la quale, benché io non avessi nulla contro la storia o il suo autore, non rientrava nella storyline che stavo cercando di stabilire. Inoltre, io ero l'unico autore responsabile per la reinvenzione di Marvelman, e fui interdetto dalle azioni di Skinn quanto, ne sono certo, lo sarebbe stato Steve Moore se qualcuno gli avesse proposto una sceneggiatura per uno spin-off di Zirk da parte di un nuovo e sconosciuto scrittore. Non incolpai di questo Grant Morrison, ma mi limitai a dire a Skinn di spiegargli che la sua storia non andava d'accordo con i miei piani per il personaggio. Come sottinteso sopra, a questo punto iniziavo a considerare Skinn come un infido maneggione, e per quanto ne so, l'affermazione di Morrison (dal libro di Lance Parkin) secondo cui Skinn gli aveva telefonato per dirgli che avevo respinto la sua storia a causa della mia crescente paranoia e possessività verso il personaggio potrebbe essere paradossalmente vera, in quanto si accorda con le storture che Skinn smerciava all'epoca. Posso dire con certezza, comunque, che il resoconto di Grant Morrison sulla lettera minatoria che dichiara di aver ricevuto da me sull'argomento è del tutto l'invenzione di qualcuno il cui disperato bisogno di attenzione non conosce fine. Visto il modo non proprio pulito in cui Skinn ha revisionato il suo racconto in modo da sincronizzarlo con la successiva sparata pubblicitaria di Morrison, posso solo dedurne che questi due individui siano nello stesso rango in quanto a statura morale (mi dicono che Skinn venda le mie sceneggiature di Marvelman a collezionisti, probabilmente quando ha bisogno di arrotondare il bilancio), e che quindi ci sia fra loro una naturale simpatia. Comunque, poiché nessuna protesta si sollevò all'epoca di questi fatti inesistenti, io procedetti per la mia strada senza averne conoscenza, e senza nessuna malevolenza verso qualcuno che, onestamente, era ben lontano dal centro della mia attenzione.
Fu qualche tempo dopo, forse più avanti verso la metà degli anni Ottanta, quando avevo cessato la mia collaborazione con Warrior ed avevo già iniziato da un po' il mio ciclo di Swamp Thing per la DC Comics, che notai un fumetto di supereroi scritto da Grant Morrison su 2000AD, un periodico che seguivo solo occasionalmente a quell'epoca. Lo seguii per due o tre episodi, notando che sembrava essere influenzato in varie delle sue idee e approcci dal mio lavoro su Marvelman e Captain Britain. Poiché ogni scrittore principiante probabilmente mostra indebiti segni delle sue influenze all'inizio della sua carriera, non lo vidi affatto come un difetto, e certamente non come un difetto insormontabile. Pensai che una volta trovata una voce propria (un'idea ottimistica, col senno di poi), si sarebbe dimostrato uno scrittore interessante. Poiché all'epoca ero ancora in buoni rapporti almeno con Karen Berger, e più o meno recentemente le avevo passato i lavori di Neil Gaiman dopo che lui mi aveva intervistato per una rivista, lei mi aveva chiesto di raccomandarle i lavori di qualunque altro autore inglese interessante che mi fosse capitato sott'occhio. Le nominai Grant Morrison, descrivendolo come uno ancora molto influenzato dal mio lavoro ma che avrebbe potuto, col tempo, emergere per conto proprio come un interessante talento individuale, come Neil Gaiman era già riuscito a fare. Sebbene io non sappia se la mia raccomandazione abbia avuto un qualsiasi ruolo nella successiva decisione di assumere Morrison, non vedo come avrebbe potuto ostacolarla.
Poco tempo dopo, quando in realtà non ero più coinvolto nel giro delle fanzine britanniche (a quanto ricordo c'era stata qualche lettera da parte di appassionati di supereroi offesi che mi attaccava personalmente, il che all'epoca mi parve un'ottima ragione per tagliare i ponti col genere), mi fu fatta notare una serie di spiacevoli commenti e insinuazioni riguardanti me e il mio lavoro, che Grant Morrison stava facendo nella rubrica / spazio pubblicitario che generosamente produceva per una di tali pubblicazioni. Questo fu piuttosto spiacevole, ed conclusi, non senza motivo a mio parere, che si trattasse forse di una qualche cerea tenia carrierista che uno poteva ritrovarsi addosso nelle acque infestate dell'industria del fumetto; un individuo affamato di notorietà ma privo del talento necessario per soddisfare le sue eccessive ambizioni, che aveva deciso di attaccarsi al mio nome attingendo pesantemente al mio lavoro e, allo stesso tempo, facendo affermazioni accuratamente controverse su di me per fanzine che gradivano qualunque contributo gratuito da parte di presunti professionisti del fumetto. Decisi che la cosa migliore da fare con questa ostinata patella fosse ignorare lui e chiunque fosse connesso a lui, nell'idea che riconoscere la sua esistenza non avrebbe fatto altro che aiutarlo nella sua strenua arrampicata verso la notorietà, e mi avrebbe coinvolto in un dibattito con una fervente, ostinata non-entità (all'epoca non esisteva la parola “stalker”) per la quale non avevo nessun interesse. Evitai le sue opere, il che non parve difficile dato che non c'era un vero motivo per rivisitare idee che apparentemente o io o Michael Moorcock avevamo già formulato diversi anni prima. Nelle rare occasioni in cui il suo nome era chiamato in causa in un'intervista, davo la risposta standard che, non avendo letto i suoi lavori, non mi sembrava corretto parlarne. La mia speranza era che questa tattica potesse infine persuadere la mia personale sanguisuga medicinale ad attaccarsi a una preda più promettente, ma ormai ce l'ho addosso da trent'anni e inizio a dubitare dell'efficacia della mia strategia. Francamente, inizio a chiedermi se non sia necessario un approccio più definitivo.
Un possibile motivo per la straziante perseveranza di Morrison l'avrei trovato anni dopo in un altro contributo a una fanzine che mi era stato segnalato; in questo caso si trattava di un'intervista sull'americano Comics Journal in cui discuteva delle sue prime reazioni alle mie opere. All'epoca dei fatti il suo apprezzamento aveva evidentemente cessato d’essere la mera “ispirazione” che aveva dichiarato di aver trovato nel mio lavoro durante la nostra unica conversazione in un ristorante di Glasgow, per arrivare alla notabile affermazione che aveva avuto una reazione talmente forte alle mie prime storie da sentire che esse fossero, in effetti, le sue storie. Benché questo spieghi come mai si sentisse libero di saccheggiarne le idee, mi sento in dovere di far notare che, nel senso tecnico e limitato ai fatti effettivamente accaduti nel mondo reale, esse erano in effetti le mie storie, o sbaglio? Nel seguito della stessa intervista, rifletteva su quei primi anni di sforzi e sulla frustrazione che aveva provato sapendo di non essere ancora abbastanza famoso (poiché apparentemente la fama è l'unica ragion d'essere della sua carriera, piuttosto che, ad esempio, sviluppare una voce personale o un talento unico). Secondo quanto riportato, fu a questo punto che il giovane autore, presumibilmente privo della possibilità di attrarre attenzione tramite storie originali e ben scritte, decise sarebbe stato più semplice guadagnare status diffamando il mio nome, scrivendo al sicuro su una rubrica di una fanzine. Esprimeva un certo dispiacere per il fatto che questo mi avesse in qualche modo portato a non voler avere niente a che fare con lui, ma a convalida del suo inusuale sistema per ottenere fama senza nessuna percettibile abilità, faceva notare che aveva funzionato. Il fine, almeno a casa Morrison, apparentemente giustifica sempre i mezzi. E sebbene sottintendesse di aver usato questi brutti metodi solo durante il suo difficile ingresso nel campo, a quanto mi sembra non ha mai esplicitamente detto di aver smesso di farlo, o di aver mai avuto sufficiente immaginazione per progettare un altro metodo per attrarre l'attenzione su sé stesso e i propri poco invitanti prodotti. Presumo che nel mondo abitato da Grant Morrison e i suoi mediocri simili, dove il valore dell'opera di ciascuno è una remota preoccupazione dopo il conto in banca e il livello di celebrità, questi metodi siano considerati del tutto legittimi e in qualche modo perfino divertenti.

Sembra che non si sia mai sviluppato al punto di voler abbandonare né le sue pungenti critiche alle mie opere, né la sua emulazione in versione “economica” delle stesse. Ricordo che alcuni mesi dopo il mio annuncio della storia basata sulla matematica frattale Big Numbers, o L'Insieme di Mandelbrot come era chiamata in origine, qualcuno richiamò la mia attenzione su un insieme di Mandelbrot che era stato forzatamente inserito nella trama di un numero di Animal Man di Grant Morrison . Questa, lo ammetto, avrebbe potuto essere nient'altro che una banale coincidenza senza importanza, eppure nel corso dell'anno successivo mi sembrò sempre di più che questa fosse l'unica strategia creativa di Morrison, e un'estensione della sua strana etica del “mi sembrava fossero le mie idee”. Ricordo che Eddie Campbell propose la teoria che Grant Morrison fosse arrivato a pubblicare la maggior parte dei suoi lavori dell'epoca leggendo le anteprime di progetti che avrei impiegato anni a completare, e affrettandosi a dare alle stampe il suo limitato concetto di ciò che secondo lui sarebbe stato il mio prodotto finale. Io annuncio From Hell e poco dopo lui “ha un'idea” per un fumetto su un serial killer realmente esistito. Io annuncio Lost Girls, una lunga opera erotica basta su personaggi letterari, e nel giro di pochi mesi lui ha in qualche modo progettato una miniserie basata sullo stesso concetto per la Vertigo. Quelle che dapprima credevo essere le azioni di un comune plagiario fumettistico assunsero un preoccupante aspetto da culto del cargo, come se questo buffo ometto credesse che col solo fatto di ripetere le mie azioni, sia che le comprendesse o no, avrebbe potuto in qualche modo diventare me e duplicare il mio successo. Sembra che a un certo punto, per esempio, abbia concluso che il segreto per essere uno scrittore di fumetti acclamato e di successo fosse avere un taglio di capelli memorabile. Abbastanza prevedibilmente, il fatto di possedere talento, tecnica affinata con fatica, o anche semplicemente idee proprie, non sembra gli sia mai sovvenuto.
Avendo preso il più possibile le distanze da una scena fumettistica che sembrava appartenere più ad aspiranti pop-star che a persone dotate di un sincero rispetto per sé stesse, il loro lavoro o il medium su cui operavano, potei solo meravigliarmi quando, i soliti pochi mesi dopo che avevo annunciato il mio ingresso nel mondo dell'occultismo e l'esperienza visionaria che io e Steve Moore crediamo di aver vissuto nel gennaio del 1994, Grant Morrison apparentemente ebbe a sua volta una visione mistica e decise che anche lui sarebbe diventato un mago. (Solo dopo aver letto la biografia di Lance Parkin appresi che successivamente alla sua epifania magica, apparentemente priva di testimoni, Morrison aveva audacemente deciso di perseguire un visionario percorso di “materialismo ed edonismo”. Mi si permetta di far notare, a beneficio di chiunque abbia preso sul serio queste idiozie, che questo non sembra tanto un'ispirazione mistica quanto un episodio di The Only Way Is Essex. In che modo questa filosofia e disciplina magica si differenzia dalla rapace ideologia Thatcheriana del decennio in cui Grant Morrison si è contortamente affermato?) Fonti affidabili mi informano che di recente egli ha compiuto il gesto senza precedenti di esprimere la sua insoddisfazione verso l'industria dei supereroi, se non altro perché non fa girare tanto denaro quanto in passato, e immagino ci sia una forte probabilità che troverà il modo di morire da due a quattro mesi dopo di me, ma non prima di aver lasciato documenti pre-datati che attestino che in realtà il suo decesso ha preceduto il mio.
Nei primi anni del secolo presente, benché sia riuscito in qualche modo a perpetuare la sua carriera apparentemente senza il conseguimento di alcuna opera significativa o memorabile, sembra che abbia ritenuto necessario continuare i suoi commenti su di me e il mio lavoro tramite il medium (molto appropriato al XXI secolo) di un autocelebrativo sito Web. Occasionalmente, colleghi dal facile umorismo hanno insistito per riferirmi le ultime perle della sua Wildiana arguzia, ritenendo evidentemente che le avrei trovate spassose quanto loro. A quanto ricordo, ci fu un articolo particolarmente ilare in cui mi suggeriva di porre un'immagine di me stesso nudo sulla copertina di Promethea, poiché (forse senza sbagliarsi) presumeva che lui e i suoi sofisticati lettori avrebbero fortemente gradito veder ritratto il mio “pisellino”. (A beneficio dei lettori americani, dovrei spiegare che “pisellino” è un eufemismo infantile utilizzato dai britannici la cui elevata educazione non consente loro l'utilizzo di termini come “uccello” o perfino “pene”.) Benché mi renda conto che una gran parte dei lettori di fumetti di supereroi non veda niente di strano nel fatto che uno non riesca a smettere di parlare di un'altra persona, al punto di esprimere “scherzosamente” il desiderio di dare un'occhiata ai suoi genitali, credo che dovrebbero capire che, dal punto di vista del destinatario, questa inizia a sembrare una vera e duratura infatuazione che nasconde (a malapena) la sua componente sessuale sotto uno strato di battute da commedia televisiva. È diventato difficile non vedere questa decennale campagna per attrarre la mia attenzione come una sorta di cotta da scolaretto protrattasi in modo grottesco, o una forma di amore non corrisposto e del tutto indesiderato.

Quest'impressione crescente andò accentuandosi verso la fine del mio ciclo su America's Best Comics, quando fui chiamato da un collega che era parente acquisito di uno dei collaboratori di Morrison. Pare che Grant Morrison avesse insistito a coinvolgere questi terzi e quarti allo scopo di “tendermi una mano” e chiedermi se non potessimo essere amici. Ora, capisco che a un certo numero di lettori la mia reazione di stupefatta incredulità sembrerà soltanto un'ulteriore prova del mio imprevedibile ed eccentrico carattere ma questo semplicemente non è il modo in cui dei cinquantenni si comportano nel mondo da cui provengo. Perché avrei dovuto voler essere amico di qualcuno che non avevo mai conosciuto, che avevo incontrato solo in un'occasione in cui si era insinuato in una cena fra colleghi per chiedermi di aiutarlo nella sua carriera, e che aveva in seguito orchestrato una campagna di molestie allo scopo dichiarato di diventare “famoso” senza usare niente di difficile come, ad esempio, impegno o abilità? Quando posi queste domande, mi fu suggerito che lo stesso Grant Morrison avrebbe risposto che stava solo comportandosi in modo “un po’ punk; un po’ alla Johhny Rotten”, al che risposi che per quanto ne sapevo John Lydon proveniva da una famiglia operaia, mentre per sua stessa ammissione Grant Morrison aveva passato la maggior parte dell'epoca punk nella sua stanza, per paura che qualche rozzo individuo con una cresta rosa e una maglietta degli U.K. Subs gli rivolgesse la parola. Purtroppo non vedevo in che modo appellarsi a false credenziali di ribellismo giovanile potesse migliorare il comportamento da bambino viziato di un uomo di mezza età estremamente sgradevole, e così ancora una volta declinai l'invito a portarlo nella mia Bat-caverna dove avremmo potuto risolvere misteri insieme, magari in pantaloni attillati per meglio evidenziare i nostri pisellini. Mi chiesi seriamente che razza di persona potesse usare un approccio del genere, e infine conclusi che se non era un caso estremo di senso di importanza incoraggiato dai genitori, allora poteva trattarsi di una sorta di narcisismo morboso, ai confini di un vero e proprio stato maniacale. In ogni caso, si trattava chiaramente di qualcuno che non volevo avere vicino, e che avrei del tutto ignorato se non avesse continuato, metaforicamente parlando, a masturbarsi sulla soglia di casa mia.

Alcuni mesi dopo questo appello a un potenziale bromance, notai una recensione di un libro di Grant Morrison in cui, apparentemente incapace di citare il sottoscritto anche quando passa a un medium apparentemente più maturo, dispettosamente indicava le scarse vendite di Big Numbers come il motivo del mio ritorno ai fumetti di supereroi. Questo libro, che a quanto ho capito inneggia all'importanza dello stesso Grant Morrison e dei supereroi di proprietà dei suoi principali datori di lavoro, doveva probabilmente essere in fase di pre-stampa all'epoca in cui lui faceva i suoi tentativi di riconciliazione; il che è un'altra testimonianza della sincerità sia dell'autore che delle sue opere. Fu a questo punto che decisi che si era reso necessario un più severo approccio antibatterico verso di lui e del moderno ambiente fumettistico in cui apparentemente prosperava. Senza troppa pubblicità, iniziai a informare gli editori che pubblicavano le opere di Grant Morrison, a partire da Jonathan Cape, che in futuro non avrebbero più dovuto contattarmi né inviarmi loro materiali. Vista la distanza che avevo già posto fra di me e l'ambiente del fumetto, sembrava probabile che avrei incontrato poca difficoltà nel separarmi silenziosamente da chiunque si considerasse un suo amico, collaboratore o collega, e in tal modo isolarmi ulteriormente da un mondo che non mi interessava già da molto tempo, giusto nel caso che qualcuno non l'avesse notato. L'annuncio qualche tempo dopo che il nostro audace neo-punk avesse accettato l'Ordine dell'Impero Britannico dal nostro governo di coalizione ammazza-poveri, naturalmente, non fece altro che confermare dal mio punto di vista la saggezza della mia decisione: io non voglio essere associato a persone che ritengo essere Tories coperti di privilegi, né con qualcuno che non vede niente di male nel farlo. In particolare voglio evitare tutti quelli che assumono pose ribelli o radicali stando bene attenti a non offendere i loro datori di lavoro o fare qualunque tipo di dichiarazione morale o politica che potrebbe in futuro mettere a rischio le loro carriere; tutti i ribelli senza un graffio.
Credo che questo ci riporti al punto in cui avevamo iniziato, con me che arrivo alla presentazione di Magic Words dopo aver letto che il mio aspirante amico Grant Morrison mi dipingeva come un autore che inserisce uno stupro in ogni serie. E successivamente, dopo quello che era sembrato un evento tranquillo e piacevole, vengo fatto partecipe del putiferio orchestrato dalle persone di cui sopra (con l'eccezione, ripeto, della fotografa americana che credo abbia delle reali recriminazioni, a mio parere mal dirette in questo caso particolare, anche se ovviamente lei ha il diritto di pensare il contrario). Spero che il fatto che sto rispondendo così diffusamente nel periodo natalizio (adesso è il 27 Dicembre) dimostri quanto seriamente prenda le tue domande; forse con molta più serietà di coloro che le hanno poste inizialmente. Potrà anche essere indizio, a un lettore acuto, del fatto che non farei una cosa del genere alla mia età avanzata se avessi la remota intenzione di farlo di nuovo. Mentre la maggior parte di voi giustamente si rilassava in compagnia della sua famiglia o dei suoi cari, io ero occupato a replicare all'accusa d'essere fissato con gli stupri e rispondere, ancora una volta, a domande vecchie di anni sul mio presunto razzismo. Non posso immaginare che chiunque abbia seguito anche di sfuggita la mia carriera possa avere alcun dubbio su come possa rispondere a tali accuse, considerando la mia precedente condotta in simili sgradevoli situazioni.

Come già dichiarato, tutti gli editori, amici, collaboratori artistici o altri associati di Grant Morrison o Laura Sneddon dovrebbero evitare di contattarmi in futuro. Inoltre, periodici e pubblicazioni che pubblicano o hanno pubblicato in passato interviste a Grant Morrison dovrebbero fare lo stesso. Per essere del tutto onesto, preferirei che, come nel caso dei “ri-creatori” di Before Watchmen, i loro colleghi e i loro lettori, gli ammiratori delle opere di Grant Morrison cortesemente smettessero di leggere le mie, perché non mi sembra giusto che il rispetto e l'affetto che nutro per i miei lettori sia compromesso da persone che in gran parte ritengo superficiali e prive di gusto. Fin qui tutto come previsto, forse, ma il furore dovuto alla mia apparizione a un evento che non mi sembrava essere particolarmente legato ai fumetti suggerisce che queste misure non siano ancora sufficienti. Se i miei commenti e opinioni sono destinati a provocare tali tempeste di indignazione, e considerando che avevo già in mente di ridurre fortemente il tempo che dedico alle interviste e alle mie già rare apparizioni, allora logicamente sarebbe meglio per tutti gli interessati, non ultimo me stesso, se smettessi del tutto di esternare tali commenti ed opinioni. Meglio lasciare che il mio lavoro parli per me, il che è in verità l'unica cosa che io abbia mai desiderato o richiesto, sia come scrittore che come lettore delle opere di altri autori. Io non ho mai preteso di avere accesso alle vite dei miei autori preferiti, o in effetti a nessuna parte delle loro vite tranne quella che hanno espresso per mezzo delle parole sulla pagina. A questo scopo, una volta soddisfatti i miei attuali impegni, porrò più o meno fine a tutte le apparizioni pubbliche che non siano performance artistiche, incluse sicuramente tutte le richieste di parlare di argomenti relativi ai fumetti o in un contesto collegato ai fumetti. Analogamente, anche se probabilmente farò ancora un paio di interviste rigorosamente selezionate e magari una breve sessione di firme al lancio di ogni nuovo libro (perché i miei degni ed eccellenti collaboratori non devono essere svantaggiati in termini di pubblicità, benché io ne faccia a meno), sarebbe molto più semplice se io rifiutassi ogni richiesta di interviste, a meno che non abbia un'ottima ragione per fare altrimenti. Suppongo che la sostanza di quello che voglio dire sia che, ora che entro nel mio settimo decennio di vita, non voglio più che tale vita sia pubblica quanto lo è stata in passato. Per quanto concerne le firme di autografi e le apparizioni pubbliche, benché nel corso degli anni io abbia trovato che la grande maggioranza dei miei lettori sia la più cortese e intelligente che un autore possa sperare di avere, dai tempi di Before Watchmen ho già smesso di firmare copie di opere di cui non possiedo i diritti, il che significa ovviamente la maggior parte di esse fino alle serie America's Best Comics incluse, con l'eccezione della Lega degli Straordinari Gentlemen. Non conservo copie di questi fumetti e in realtà non ho motivo di pensare ad essi, e rispondere a domande su di essi o autografarne delle copie, a parte alcune meritevoli eccezioni, è una cosa che sinceramente non mi entusiasma più.
Questa può sembrare una reazione sproporzionata, ma per trent'anni ho dovuto pazientemente sopportare la vile e cagnesca ostilità di qualcuno che, quando mi capita di pensarci, ricordo più che altro come un imitatore scozzese. Benché chiaramente lui non sia l'unico motivo per cui ormai provo un vero e proprio disgusto verso la maggior parte dell'attuale mondo del fumetto, ha probabilmente contribuito più di chiunque altro ad inquinarne l'atmosfera e renderla irrespirabile con la sua continua, puzzolente incontinenza; e questo in un campo in cui, credetemi, aveva una forte concorrenza. Ci sono circa una dozzina di persone nell'industria fumettistica che rispetto immensamente e con cui sono felice di lavorare e rimanere in contatto, ma il resto è un mondo di cui non ho intenzione di far parte; un mondo di effimere piccole celebrità che sono riuscite a trasformare questo magnifico medium in una lucrativa fonte di prodotti commerciali che sono ormai socialmente accettabili al punto di essere sterili, oppure in esercizi di stile tramite i quali lettori ed editori altrimenti prudenti e convenzionali credono forse di acquisire un'aria di tagliente modernità. Durante il disastro di Before Watchmen, benché sia stato sorpreso e commosso dalla risposta di molti lettori e rivenditori, ho ricevuto solo due lettere che esprimevano appoggio dall'interno di un'industria che, evidentemente, non si preoccupa di me più di quanto io mi preoccupi di lei. È difficile pensare che il mio ritiro possa creare difficoltà a qualcuno, e Grant Morrison avrà finalmente giustificato tanti anni di sforzi con l'avere ottenuto infine la mia piena attenzione per un paio d'ore. Io stesso sarò in grado di continuare il mio lavoro senza interruzioni, il che è qualcosa che credo di avere il diritto di fare dopo tutti questi anni, e in effetti la lunghezza di questa risposta potrebbe essere paragonata a qualcuno che si prende tutto il tempo per scartare un regalo a lungo atteso e molto speciale che ha fatto a sé stesso. La verità potrà renderci liberi oppure no, ma spero che la totale scomunica e la completa indifferenza ci riescano.

Riguardo al punto finale del mio riferirmi a Gordon Brown come a un “ciclope bipolare”, ammetto che questa sia stata una cattiva idea e chiedo scusa per l'offesa gratuita causata dal mio commento. Ho alcuni buoni amici che soffrono di disturbo bipolare. Ognuno di loro è fra le persone più motivate e capaci che io abbia mai incontrato, e il mio commento non voleva denigrare né loro né chiunque altro condivida una condizione che so bene essere debilitante e a volte insopportabile. Il mio fallito tentativo di umorismo è nato in parte da un'incomprensione riguardo alle tendenze attuali: pensavo che essendo io stesso dotato di un solo occhio buono come Polifemo, sarei stato scusato per la parte sul ciclope, mentre d'altra parte mi sarei aspettato una discussione più accesa sui problemi della salute mentale dopo i molti commenti pubblicati a proposito della mia età avanzata e dello squilibrio mentale che ad essa si accompagna, come l'ultima volta in cui sono stato “più che paranoico” in uno “sproloquio da vecchio pazzo”. Non ricordo di aver sentito ondate di proteste in tali occasioni, ma questo non vuol dire che non ci siano state. Nel caso di Gordon Brown, stavo cercando di suggerire che benché questa condizione in sé stessa sia da trattare con comprensione e compassione, avere un caso non diagnosticato alla guida della nazione non era forse la migliore delle situazioni. Comunque, anche se questo è ciò che cercavo di dire, l'ho espresso goffamente per fare una battuta di spirito, il che è una cosa irresponsabile. Chiedo ancora sinceramente scusa, e la riduzione delle mie future interviste e apparizioni pubbliche dovrebbe impedire che ciò accada di nuovo.

[L'intervista in lingua originale è disponibile sul sito di Pádraig Ó Méalóid: qui.]